Afghanistan. La domanda che tutti si fanno: perché l’America e gli occidentali hanno abbandonato il Paese?

Dopo 20 anni di guerra, il ritiro delle truppe occidentali ha spalancato le porte dell’Afghanistan ai talebani, gruppo fondato nel 1994 dal Mohammed Omar che porta avanti un’interpretazione radicale della sharia

È difficile trovare qualcosa che anche solo assomigli al bandolo di quella matassa inestricabile che è l’Afghanistan oggi: troppi interessi in gioco, troppe promesse non mantenute, troppe abitudini e costumi lontani anni luce dai nostri. Anche dopo 20 anni di guerra che non ha visto coinvolta solo l’America, ma tutto l’Occidente.

Un mondo via via più lontano di cui si torna a parlare solo ora

E già questo dovrebbe far riflettere: vent’anni, come giustamente sottolinea Paolo Giordano sul Corriere della Sera, sono “un’epoca intera”, nella quale l’Afghanistan è stato una realtà via via sempre più labile, lontana, ben nota solo alla mente dei soldati presenti e delle loro famiglie, che già 10 anni fa si chiedevano il senso della loro presenza sul posto. Pochi credevano nella teoria del regime change e del nation building con cui soprattutto gli americani hanno giustificato il loro intervento (non solo in Afghanistan): ormai sono troppi i fallimenti di questo tipo per pensare che la costruzione di uno stato democratico “dall’esterno” possa funzionare come fu, in un certo senso, per la Germania e il Giappone all’indomani della Seconda guerra mondiale. A maggior ragione, sottolinea Fulvio Scaglione in un articolo di Famiglia Cristiana, in un Paese dove solo il 20% circa della popolazione è urbanizzato, mentre il resto vive in villaggi spesso inaccessibili in cui le tradizioni e la fedeltà al clan sono ancora molto radicate. Oppure dove, in fin dei conti, di chi sia a capo di città lontane e in cui mai si metterà piede conta davvero poco: non a caso non ci fu grande opposizione all’avanzare dell’esercito occidentale 20 anni fa, come non ce n’è stata ora alla marcia indisturbata del ritorno dei talebani.

Strategie sbagliate e poca lungimiranza

Qualcosa di più, in questo senso, l’avrebbe dovuto fare l’esercito regolare, questo sì addestrato per anni proprio con l’ottica di renderlo capace di mantenere l’ordine anche una volta rimasto senza l’aiuto degli occidentali. Sono stati spesi miliardi di dollari in tal senso, ma alla resa dei conti l’esercito locale si è sciolto quasi senza opporre resistenza, se non per qualche sparuta sacca composta dai corpi speciali, senza dubbio i meglio addestrati. L’analisi del Wall Street Journal citata da il Post anche in questo caso punta il dito sulla sbagliata strategia americana, he ha cercato di replicare un modello di esercito (il suo) che punta moltissimo sull’aviazione ma che, venendo a mancare i tanti contractor che tenevano in piedi la logistica, ritiratisi insieme all’esercito, non sono stati rimpiazzati dal governo afghano.

Da una parte, dunque, c’è una larga parte della popolazione che appare sostanzialmente indifferente ai “giochi di potere” dei governi delle città, le cui tradizioni e i cui stili di vita probabilmente non sono cambiati nei 20 anni di guerra e non cambieranno ora. Dall’altra ci sono, però, tutte quelle persone che per 20 anni hanno creduto alle promesse di libertà portate dagli Occidentali. Ci sono ragazzi oggi maggiorenni che non hanno mai vissuto sotto il governo dei telabani, e padri di famiglia anni che si ricordano cosa significasse: erano loro, probabilmente, la gran parte di quelle persone che cercavano di fuggire aggrappate agli aerei. Perché, nonostante i talebani di oggi siano, come sottolinea ancora Scaglione, forse meno palesemente estremisti rispetto ai loro predecessori, sono però più accorti. Hanno stretto alleanze e accordi con i Paesi vicini interessati, se non altro, a mostrare al mondo quello che può facilmente passare come il fallimento della politica USA, e proprio per questo potrebbero essere molto più indisturbati nell’imporre la loro legge interna.

Quanto in fretta ci si dimenticherà dell’Afgnanistan?

Colpisce molto nell’articolo di Paolo Giordano il ricordo della sua visita a una scuola di Herat compiuta nel suo viaggio in Afghanistan ormai 10 anni fa: all’epoca la visitò quasi svogliato, interessato com’era a raccontare della guerra. Oggi, però, è proprio a quella scuola che va il suo pensiero, al non sapere cosa ne sarà o cosa ne sia già stato. Al non riuscire a immaginare come i ragazzi e, soprattutto, le ragazze cresciute forse con la promessa di poter scegliere si sentano oggi, che quella promessa appare scomparsa.
Probabilmente, per Giordano come per tutti gli altri, una risposta non arriverà mai. Perché di quello che succederà da oggi in poi in quella terra lontana si sentirà di giorno in giorno parlare sempre meno. È nell’interesse dei talebani farlo. Ed è, purtroppo, nelle abitudini di un Occidente pronto a voltare pagina con la facilità di chi non legge mai due righe più in là dell’attualità. Magari scegliendo di non accogliere chi dall’Afghanistan scapperà cercando un futuro da coloro che, in fondo, per 20 anni gliel’hanno promesso. Sbattergli le porte in faccia, una volta arrivati qui vicino, allora, farebbe ancora più male che aver deciso di ritirarsi da quella terra lontana.