“Chiudere le comunità educative e aprire le case famiglia”: la speranza per 16 mila bambini italiani .

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Ma una comunità educativa può essere a misura di bambino? Come è possibile sancire solennemente il diritto alla famiglia per ogni bambino e pensare che le comunità educative possano rendere esigibile questo diritto? Possono gli standard affettivi delle comunità educative, così definiti nel programma dei lavori della conferenza, sostituire l’amore di una famiglia? Com’è possibile continuare ad affermare che ogni bambino ha diritto a una famiglia e contemporaneamente legittimare l’esistenza di comunità educative?

Ovviamente la risposta per tutte queste domande è no: questo perché un minore non può avere una crescita serena senza una famiglia. Ad affermarlo c’è proprio una legge ad hoc, la legge 149/2001 che parla di “comunità di tipo familiare” per l’accoglienza dei minori allontanati dai genitori biologici. Eppure le comunità educative continuano ad esistere, ad essere aperte e attive violando sotto la luce del sole ogni norma in merito.

E dire che il legislatore era stato chiaro, nel formulare i principi che regolamentano la legge sull’adozione e l’affidamento dei minori, all’atto di riformare la Legge 184/1983: qualsiasi minore costretto, per qualsivoglia causa, a vivere al di fuori della propria famiglia di origine, deve essere accolto in una famiglia affidataria o, in sua mancanza, in una “comunità di tipo familiare”. Proprio con l’intenzione di evitare problemi interpretativi, si era ulteriormente specificato quale fosse la corretta interpretazione del termine “familiare”.

Andando a rileggere per esteso la norma riformata, ovvero l’articolo, 2 comma 4 della legge 149/2001, si legge testualmente: “Il ricovero in istituto deve essere superato entro il 31 dicembre 2006 mediante affidamento ad una famiglia e, ove ciò non sia possibile, mediante inserimento in comunità di tipo familiare caratterizzate da organizzazione e da rapporti interpersonali analoghi a quelli di una famiglia”.  Ovvero oltre a chiudere gli istituti bisogna focalizzare un particolare, un passaggio non indifferente della legge:  nella riorganizzazione delle modalità di accoglienza dei minori in affidamento, in mancanza di famiglie affidatarie, “organizzazione” e “rapporti” interni alle “comunità” devono essere “analoghi a quelli di una famiglia”. Da qui la domanda sorge spontanea.

Cosa ha a che vedere con i rapporti familiari una comunità gestita da un direttore che svolge una prestazione lavorativa? Che cosa hanno a che vedere il ruolo di educatori e altre figure professionali retribuite con una organizzazione familiare? La risposta è: assolutamente nulla.

Ecco perché nella mente del legislatore del 2001, già proiettata proprio nel “superamento del ricovero in istituto” c’era la precisa volontà di disseminare nel nostro Paese strutture rivoluzionarie e nuove: le case-famiglia.

Se nelle norme di alcune regioni la casa famiglia è espressamente definita come comunità familiare, come in Emilia-Romagna (dove si fa riferimento esplicito a una struttura “caratterizzata dalla convivenza continuativa e stabile di almeno due adulti, preferibilmente una coppia con figli o un uomo ed una donna, adeguatamente preparati, che offrono agli ospiti un rapporto di tipo genitoriale sereno, rassicurante e personalizzato e un ambiente familiare sostitutivo”), o in Lombardia (dove la comunità familiare è definita “struttura di accoglienza con finalità educative e sociali realizzata senza fini di lucro da una famiglia presso la propria abitazione”), la maggior parte delle regioni non distinguono chiaramente.

E’ importante allora prendere atto che le comunità non caratterizzate da rapporti e organizzazione analoghi a quelli che si trovano in una famiglia – cioè quelle che non hanno la presenza “qualificante” di una famiglia – sono già oggi fuori legge e dovrebbero essere chiuse, trattandosi – nella sostanza – di piccoli istituti, ovverosia quelli aboliti dalla 149.

Nello spirito della stessa legge, è contenuto molto di più che un semplice auspicio: l’unica comunità di tipo “familiare”legittimamente ammessa è, e deve essere, la casa-famigliaTutto quello che rappresenta e ripropone lo schema degli istituti è invece destinato alla chiusura.

D’altra parte, il legislatore, imponendo la chiusura degli istituti, ha voluto così affermare un principio sacrosanto: in Italia, ogni minore, anche se fuoriuscito dalla originaria “relazione familiare”, deve essere collocato in un contesto di accoglienza analoga, perché solo in una vera famiglia si può ricostituire e far sopravvivere quel tipo di rapporto umano ed educativo, che è necessario alla crescita di ciascun bambino. La semplice “assistenza”, per quanto utile a lenire e curare la “ferita” del distacco, non è condizione sufficiente a far sopravvivere nel minore la speranza di tornare, un giorno, a sentirsi un vero e proprio “figlio”, e come tale accolto e amato.