Con Gesù quel ‘poco’ diventa ‘tanto’, addirittura ‘troppo’!

In occasione della festa del Corpus Domini, la riflessione del teologo Don Maurizio Chiodi prende spunto dalla Prima Lettura Dal libro della Gènesi Gen 14,18-20, dalla Seconda Lettura Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi 1Cor 11,23-26 e dal Vangelo Dal Vangelo secondo Luca Lc 9,11b-17.

Oggi, solennità del Corpus Domini, è una domenica speciale, perché, a suo modo, ci ricorda il senso di ogni domenica, il primo giorno della settimana, il primo dopo il sabato.

È il giorno in cui, dall’inizio, i primi cristiani hanno cominciato a radunarsi, per fare memoria dell’Ultima Cena. Ne abbiamo una testimonianza antichissima nella prima lettera di Paolo ai Corinzi, scritta pochi anni dopo la morte di Gesù, una ventina di anni circa.

Paolo dice di aver «ricevuto dal Signore quello che», a sua volta, egli ha «trasmesso» ai cristiani di Corinto.

È una formula molto solenne (trasmesso/ricevuto) che Paolo utilizza poco più avanti al capitolo quindici, per la Pasqua di Gesù (morte, sepoltura, resurrezione, apparizioni).

Siamo dunque dinanzi al nucleo incandescente del Vangelo: l’Ultima Cena, nella quale Gesù anticipa la sua Pasqua.

Per questo, da subito, il giorno dopo il sabato, i cristiani hanno celebrato il giorno del Signore Gesù: domenica viene da ‘Dominus’, Signore!

Hanno celebrato, mangiando il pane e bevendo al calice, «finché egli venga».

Noi oggi diciamo ‘il fine settimana’ e consideriamo la domenica l’ultimo giorno della settimana, ma in realtà la domenica, per noi cristiani, è il primo giorno di ogni settimana!

È il giorno in cui ci ritroviamo a celebrare il dono che Gesù fa di sé nell’Eucarestia, nella Cena: «Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me».

Queste sono le parole ‘fissate’ già nella lettera di Paolo. Queste sono le parole, il ‘rito’, nella celebrazione dell’Eucarestia, ‘Corpo dato, sangue versato’: un corpo dato fino al dono del sangue, cioè il dono della vita.

Da sempre questo riunirsi, che è un essere convocati, è stato il segno distintivo dei cristiani, di coloro che sono stati battezzati nel nome del Signore Gesù!

Solo pochi decenni orsono, qui da noi, quasi tutti ‘andavano a Messa’, la domenica. Era un fiume di gente che, a tutte le ore, partecipava all’Eucarestia. Oggi non è più così. In pochi anni la situazione si è radicalmente trasformata.

Certo, non dobbiamo cadere nella trappola di pensare che, un tempo, per il semplice fatto di ‘andare a Messa’ tutte le domeniche, fossero tutti automaticamente dei buoni cristiani. Non è così. Lo sappiamo.

Certo, oggi, mette tristezza pensare che, per molti, che ancora si dicono cristiani, partecipare all’Eucarestia la domenica non è affatto un momento fondamentale della loro fede.

Ci sono delle ragioni profonde, che stanno all’origine di questa ‘dimenticanza’: il rischio dell’abitudine, l’individualismo della fede, per cui ciascuno di noi si ‘coltiva’ una fede sua, ‘su misura’ dei propri sentimenti e delle proprie idee, rinunciando a mettersi in gioco nella comunità.

Questo individualismo nella fede è una forma di un più generale individualismo, che è tipico della vita moderna e che tocca tutta la vita, dalla casa al lavoro, dalle amicizie alla politica.

Però, da dove ripartire, per noi cristiani, se non dall’Eucarestia?

Allora non possiamo non domandarci quale è la qualità delle nostre celebrazioni domenicali.

Sono davvero celebrazioni, momenti di festa? Davvero veniamo qui a celebrare l’ascolto della Parola di Dio? Davvero preghiamo, nella ‘Messa’? Davvero partecipiamo con il canto, le nostre parole? La mensa eucaristica è per noi il momento culminante, in cui ci nutriamo del corpo del Signore, il cibo della nostra vita e della nostra fede?

Magari pecco di pessimismo – e come lo vorrei! – ma molto spesso le nostre celebrazioni assomigliano a dei riti spenti, a delle abitudini senza vita. Siamo lì, come per ‘pagare’ un tagliando e potercene andare via al più presto, alla fine di una cosa noiosa, una abitudine senza senso.

Io sono convinto che la qualità della vita di una comunità cristiana si manifesta e si decide nel modo in cui, nelle nostre chiese, noi celebriamo l’Eucarestia, fin nei più piccoli dettagli: quanti cristiani scelgono gli ultimi posti, i più lontani dall’altare, quanti dei presenti non aprono la bocca, tantomeno per cantare, anche perché è così raro che ci sia, nelle nostre Messe, un accompagnamento musicale, quanti dei lettori non capiscono quello che vanno a leggere e quindi, a catena, non possiamo comprenderlo nemmeno noi che ascoltiamo, quanti preti ripetono velocemente e stancamente delle formulette alle quali per primi non pensano, e con le quali, per primi, sono loro a non pregare?

E potremmo andare avanti con moltissimi altri esempi.

Da dove ripartire, per ravvivare la fede nelle nostre comunità, se non dal modo in cui celebriamo, perché la celebrazione diventi alimento per la vita quotidiana?

Il brano del Vangelo è uno dei racconti di moltiplicazione del pane, che è l’unico ‘miracolo’, l’unica cosa meravigliosa, l’unico ‘segno’ che è raccontato da tutti, ma proprio tutti, gli evangelisti, come a dirne l’importanza unica, assoluta, ed eccezionale.

Questo ‘miracolo’, questo ‘segno’, anticipa la Pasqua e l’Ultima Cena.

Nel racconto di Luca, nel Vangelo di oggi, si dice che Gesù parlava «alle folle del regno di Dio» e guariva «quanti avevano bisogno di cure».

Già qui c’è un programma di vita buona, la vita buona del Vangelo. Gesù annuncia, con la Parola, una speranza che va oltre, che supera – trascende! – le cose di tutti i giorni, perché apre alla grazia della cura gratuita e sovrabbondante che Dio ha per noi. E, quando Gesù, mentre parla, guarisce «quanti avevano bisogno di cure», non fa altro che annunciare nelle opere quanto le sue meravigliose parole proclamavano in modo chiaro e aperto, rivolto alle folle, a tutti.

Non è quello che dovremmo fare anche noi cristiani di oggi?

Essere testimoni, in questo nostro mondo, con tutte le sue fatiche, le sue pretese, di una speranza di cui noi non siamo l’origine?

Non dovremmo noi diventare testimoni di questa speranza, prendendoci cura gli uni degli altri?

Questa dovrebbe essere la principale preoccupazione di noi cristiani: la cura reciproca, non l’inganno, la calunnia, oltre la solitudine e l’individualismo. Noi cristiani, che abbiamo sperimentato la cura che Dio ha su di noi, di questa cura reciproca dovremmo diventare testimoni per tutti!

Questo non può che diventare un annuncio di speranza e di gioia per il mondo intero!

Il racconto di Luca, poi, è molto bello. Mi limito a sottolineare due o tre piccoli passaggi, in mezzo alla straordinaria ricchezza di questo testo.

Sono i Dodici che si accorgono che è ora di congedare la folla, per passare la notte da qualche parte e per «trovare cibo», essendo tutti «in una zona deserta».

C’è il deserto, attorno a Gesù.

I Dodici si rendono conto di non poter rispondere alla fame, ai desideri di questa folla. Pensano, ingenuamente, che ciascuno debba ‘pensare a se stesso’.

Gesù, incredibilmente, promette loro che saranno loro stessi a dare «da mangiare» a tanta folla.

Ma non hanno che «cinque pani e due pesci».

I Dodici, con le loro forze, non possono fare (quasi) nulla.

Eppure Gesù prende quel ‘poco’ e lo fa diventare ‘molto’.

Gesù non umilia, non compie questo gesto meraviglioso dal nulla. Prende quei cinque pani e due pesci. Parte, anche oggi, da quel poco che sono le nostre comunità, le nostre persone, le nostre famiglie.

Ma, nelle sue mani, per grazia tutto si trasforma. Quel ‘poco’ diventa ‘tanto’, addirittura ‘troppo’, ma questo troppo non è per essere sprecato.

Il ‘tanto’ e il ‘troppo’ di Gesù sono il segno di una grazia sovrabbondante, eccessiva, isperata, incredibile.

Sono il segno di un amore grazioso, di una fedeltà, quella di Dio, che non ci abbandona nel deserto della vita, nel deserto e nella solitudine delle relazioni, nella violenza che affligge questo nostro mondo.

Tutti mangiano a sazietà.

Quel pane sovrabbondante è il segno che solo questa grazia ci salva davvero, risponde, colmandoli, ad ogni attesa, ai nostri desideri.

È questa grazia che noi celebriamo nell’Eucarestia, con gioia, sorpresa e gratitudine!