Dal nord Europa alla piccola isola del Mediterraneo. Eritrei e lampedusani stretti in un unico e solo abbraccio: quello dell’accoglienza.

sabir(dal nostro inviato Veronica Policardi) Il 3 ottobre scorso a Lampedusa è stato il giorno di triste memoria della tragedia che un anno fa ha segnato profondamente un’isola del Mediterraneo che rivendica proprio in questi giorni il suo essere stata “porto di salvezza” e non “luogo di morte“.

Al  di là delle mille cerimonie,  quella giuste della gente comune,  quelle strazianti dei superstiti e quelle scontate delle istituzioni, l’unico vero momento in cui si è reso giustizia alle tante vittime del mare, come si è soliti dire, ma che in realtà sono  vittime dell’uomo stesso, è stato quello di preghiera organizzato all’interno del festival Sabir,  a Lampedusa dall’1 al 5 ottobre, che con forza e con rabbia in molti senza distinzione di provenienza, colore,  associazione,  credo religioso hanno voluto fare davanti alla porta d’Europa nonostante la pioggia scendesse così forte da ferire la stessa pelle. Assieme a loro i pochi sopravvissuti del 3 ottobre che per la triste occasione sono ritornati a Lampedusa,  facendo dei viaggi lunghissimi dal nord Europa,  per riabbracciare chi in quel giorno è stato la loro famiglia e la loro spalla per piangere,  chi ha curato le loro ferite e dato un pò di speranza.

I ragazzi eritrei, infatti, ospitati sull’isola dalle famiglie lampedusane non hanno voluto far mancare ai loro sfortunati compagni di viaggio,  l’ennesimo saluto e preghiera in quel mare che li ha sommersi.  In quel preciso momento il cielo ha scaricato tutta la rabbia che forse il 3 ottobre di un anno fa non è riuscito a scaricare.  I tuoni hanno dato clamore alle grida sollevate quella notte assurda,  i lampi hanno mostrato al mondo la precarietà dell’essere umano che cerca aiuto e che spera nel soccorso di chi gli è vicino.

Risuona la frase che è stata stampata sulle magliette nere,  che il Comitato 3 ottobre, formato dopo il naufragio anche per sostenere,  accompagnare e proteggere i sopravvissuti oltre che garantire il riconoscimento delle vittime,  ha voluto realizzare per l’occasione,  “Protect The People Not The borders”:  ti arriva con la stessa forza di una doccia fredda la semplice richiesta di proteggere le persone e non i confini.

Nonostante infatti la pioggia, tutti rimangono li,  fermi a pregare e stretti come su una barca – aggiunge –, affrontano l’ennesima tempesta, quella del ricordo, quasi a sentirsi in colpa per non essere riusciti a salvare il loro compagno di viaggio, per non averne salvato uno in più,  a non aver fatto nulla per evitarlo.

Ad un anno esatto dalla tragedia i superstiti hanno rivissuto i momenti più brutti di quel viaggio in quel tratto di mare che  per pochi metri li avrebbe portati tutti a Lampedusa, il “Porto Salvo” .  Ai partecipanti non interessa nulla di tutto quel “temporale” che gli si è scatenato intorno, chiedono solo che il resto delle vittime vengano almeno riconosciute.

Grazie ai ragazzi della comunità di Sant’Egidio, si vedono, invece,   impressi su una cartolina, i volti di alcune di quelle vittime dell’indifferenza.  Uno ad uno simbolicamente se ne incrocia lo sguardo provando a ricordare, immediatamente dopo ci si rende conto che è impossibile. Non distolgono  lo sguardo, invece, i compagni di viaggio,  gli amici, i parenti e non per ultimi i soccorritori: il pescatore,  il militare,  il vigile del fuoco,  il prete, il medico, il subacqueo,  tutta la gente comune che li ha, fino all’ultimo, accompagnati dal mare ad una bara.

E Lampedusa, in quella assurda occasione,  non ha potuto nemmeno celebrare i funerali con le poche famiglie accorse, perché una settimana dopo il naufragio,  nel silenzio e nella continua vergogna, dalla piccola isola quelle bare le hanno con forza allontanate per le celebrazioni ufficiali. Ma in quel momento di forte preghiera,  al di là delle tante polemiche che con ragione si devono fare,  il pensiero va giustamente ai tanti che non sono stati riconosciuti,  ai tanti rimasti senza nome e anche senza volto,  alle loro ignare famiglie, che tuttora aspettano notizie. 

La cerimonia si conclude, i ragazzi eritrei ritornano tutti nelle loro famiglie lampedusane, pronte ad aprire le loro porte e per l’ennesima volta,  come dopo un naufragio,  a dare dei vestiti asciutti e un pasto caldo, ad accoglierli, tornano nella famiglia di Ai.Bi. che dopo il naufragio ha deciso di non poter più “restare a guardare“.

Le emozioni non finiscono.  Se con un movimento dall’alto, con la pioggia, verso il basso, attraverso  il mare, si è scaricata la tanta rabbia per molti tenuta addosso da un anno,  il giorno dopo con un movimento inverso gli stessi affidano al cielo 368 lanterne che volano alto come i loro sogni e le loro speranze.  Nel silenzio e lontani dai grandi riflettori, si riuniranno infatti per l’ultima volta,  in questa occasione,  a pregare e questa volta è il cielo, sempre di Lampedusa, a raccogliere le loro preghiere.

Un impegno che contraddistingue Ai.Bi., Amici dei Bambini da un anno con il progetto  “Bambini in alto mare” www.aibi.it/ita/sostieni-aibi/bambini-in-alto-mare incentrata nella giusta accoglienza dei Misna, Minori non Accompagnati. Se anche tu desideri dare il tuo contributo o avere maggiori informazioni, collegati al sito e vedrai quanto è semplice rendere felice un bambino.