Dal tabù della morte ai mondiali di calcio: ecco cosa ci tiene lontani dalla guerra in Siria

siria fumo200Dal nostro inviato (Luigi Mariani) – «Perché in Italia non si parla mai di quello che accade in Siria?» mi chiede un ragazzo siriano, che in Italia ha vissuto e lavorato, quindi parla con cognizione di causa. È chiaramente una domanda a cui non è semplice rispondere: me la cavo con una frase evasiva, che in realtà non significa molto: «Sembra proprio una guerra dimenticata da tutti», dico.

Inutile dilungarsi a spiegare, giustificare il fatto che nel nostro paese si parla tanto di politica, di calcio e di argomenti spesso frivoli: le cosiddette “armi di distrazione di massa”, capaci solo di dividere e spaccare l’opinione pubblica, creando terreno fertile per la polemica e lo scontro.

Inutile precisare che la morte e la malattia, per noi occidentali, sono viste oggi come un tabù, tenute a distanza precauzionale, relegate negli ospedali o alle attività caritatevoli, di assistenza e di volontariato.

Inutile dire che la ragione vera, in fondo, è che siamo assuefatti al dolore degli altri. La sofferenza, filtrata dallo schermo del televisore, ci giunge lontana, ci pizzica appena; nella migliore delle ipotesi, ci spinge a dire una qualche frase di circostanza per manifestare il nostro sdegno e la nostra compassione. Alle volte ci provoca addirittura un nodo alla gola. Ma poi finisce lì, un passo prima di sconfinare nel gesto di solidarietà, nell’impegno a sostegno della causa.

Ogni giorno, nella sola Siria, muoiono decine di persone, per lo più donne, bambini e anziani, notoriamente le prime vittime di ogni conflitto: eppure, per noi sono solo numeri e titoli di giornali. Ci riesce difficile scorgere un volto dietro ogni singola “unità”: la tragedia di un figlio che muore dilaniato da un’esplosione o di una madre freddata dai colpi di un cecchino annoiato (sì, ho sentito anche storie del genere). Difficile cogliere fino in fondo lo “scandalo” di una singola vita umana perduta per sempre, comprendere come questa perdita si ripercuota sulla famiglia, sulla comunità, sulla società intera; specialmente quando a essa se ne aggiunge un’altra, e poi un’altra, e poi un’altra ancora, secondo un diabolico, quanto imprevedibile moltiplicatore.

Personalmente, ringrazio di aver avuto l’opportunità di avvicinarmi – sia dal punto di vista fisico, che emotivo – al dramma siriano, perché venire a contatto diretto con le famiglie che hanno vissuto l’orrore della guerra, mi permette di far mia una parte del loro dolore: li vedo così simili a me, ai miei familiari, ai miei amici, che mi riesce più facile – ora – unire il loro cuore al mio. Per me non si tratta più di una semplice puntura sulla pelle, ma di un siero della verità che ormai circola nel sangue. Eppure mi sento ancora a distanza siderale, rispetto alla piena comprensione di questa misteriosa piaga, di questa umanità tradita e ferita.

È ormai tempo di Mondiali, ed è curioso come proprio in questi giorni la guerra in Siria abbia sconfinato, portando a una forte destabilizzazione dell’Iraq, dove si sta espandendo rapidamente il gruppo jihadista dell’ISIS (Stato islamico dell’Iraq e del Levante): sta cambiando, di fatto, la geografia dell’intero Medio Oriente e quasi nessuno ne parla. La situazione potrebbe presto degenerare e portare a un nuovo conflitto e a nuove migrazioni di sfollati (in parte sta già avvenendo). Come battuta suonerà un po’ amara, ma se mi dovessero chiedere di nuovo perché noi italiani non ci interessiamo di quello che sta accadendo nella regione, almeno questa volta saprò come rispondere: «Si gioca Italia-Inghilterra…»

In questo momento, in Siria c’è bisogno di tutto l’aiuto possibile, da parte di tutti. Non restiamo a guardare.

Se vuoi spingerti oltre la semplice frase di circostanza e aprirti alla solidarietà verso le famiglie e i bambini colpiti dal conflitto, dona anche tu il tuo contributo ai progetti di Ai.Bi. in Siria, visitando il sito dedicato.