Nel suo primo prodigio di resurrezione, Gesù ci mostra la vera compassione come “accoglienza” del dolore altrui

gesù resuscita figlio di vedovaPer la X Domenica del Tempo Ordinario, la riflessione del teologo don Maurizio Chiodi prende spunto dai brani del Primo Libro dei Re (1Re 17, 17-24), della Lettera di san Paolo apostolo ai Gàlati (Gal 1, 11-19) e del Vangelo secondo Luca (Lc 7,11-17).

 

Dopo la Quaresima, la Pasqua, la Pentecoste e le solennità che seguono le feste pasquali, riprendiamo la lettura del Vangelo di Luca, che ci accompagnerà fino all’Avvento del prossimo anno liturgico.

La scena del Vangelo di oggi è molto bella e giustamente famosa. È il racconto del primo prodigio di una ‘resurrezione’, nel Vangelo di Luca.

Gesù viene da Cafarnao e arriva a Nain, un villaggio ai piedi del Tabor.

«Con lui camminavano i suoi discepoli e una grande folla». Sono molti, moltissimi, quelli che lo seguono, affascinati dalle sue parole e dai gesti miracolosi che egli compie.

Ad un certo punto, «vicino alla porta della città», c’è l’incontro tra questi due cortei, così diversi tra loro. Da una parte Gesù, con i discepoli e la grande folla, e dall’altra il corteo triste di tantissima gente della città che accompagna alla tomba un ragazzetto, «unico figlio di una madre rimasta vedova».

Che contrasto! Il cammino della vita, con le sue fatiche ma con le sue bellezze, e l’immenso dolore della morte di un ragazzo.

Il Vangelo di Luca, l’unico a raccontare questo episodio della vita di Gesù, non dice nulla di più su questi personaggi, che popolano la scena del dramma. Ma possiamo ben immaginare lo strazio e il dolore inconsolabile di questa madre, per di più vedova, sola. Accompagnando il figlio alla tomba, questa donna viveva lei stessa l’esperienza straziante della morte.

La morte non è mai ‘attuale’. Arriva (quasi) sempre al momento ‘sbagliato’ e in ogni caso quando arriva ci sorprende. C’è qualcosa di inafferrabile e di misterioso nella morte. L’altro ci viene sottratto. Rimane immobile. Silenzioso, Senza parole. Non ci risponde più. Non ci chiama più. Ci sfugge, per sempre.

Pian piano, poi, nella morte degli altri impariamo ad immaginare la nostra propria morte, anticipando a noi stessi il momento in cui non ci saremo più. C’è uno stretto legame tra la morte dell’altro e la nostra morte.

Tutto questo è drammaticamente vero nella morte di un figlio.

È una esperienza lacerante, fino allo spasimo, per un padre e una madre. Lì l’uomo fa l’esperienza della sua assoluta impotenza dinnanzi alla morte. Quando la morte arriva, tu davanti a lei non puoi fare nulla. Puoi resistere, la puoi (perfino anticipare), ma non puoi sottrarti alla morte.

E quando una madre, come qui nel Vangelo, o un padre, assiste alla morte del proprio figlio, il dolore giunge ad un culmine che sembra impossibile sopportare.

Sei costretto ad assistere alla morte di colui che hai generato, colui che hai messo al mondo. La morte di un figlio è come una promessa tradita, una violenza intima e profonda. Tu, che hai dato la vita, non puoi trattenere l’altro nella vita.

Da qui la lacerazione, la ribellione, la protesta, l’impotenza, il silenzio davanti all’incomprensibile!

La morte di un figlio scende nel più profondo dell’animo di una madre e di un padre, fino a diventare una forma della propria stessa morte.

Nel Vangelo, poi, questa madre è anche vedova. Era sola, dunque. Con la morte di quel figlio, veniva meno ogni speranza della sua vita. In un’epoca senza tutele sociali, questa donna si trovava esposta alla povertà e alla solitudine inconsolabile.

Tutto questo, nel Vangelo di Luca, è detto con pochissime parole: «Vedendola, il Signore fu preso da grande compassione per lei».

Gesù vede e il suo non è uno sguardo superficiale e distratto. Guardando, viene colpito da ciò che appare ai suoi occhi.

«Fu preso da grande compassione».

È lo stesso verbo con cui Gesù stesso descriverà più avanti, nel Vangelo di Luca, la ‘compassione’ del samaritano nei confronti di quell’uomo tramortito e derubato dai briganti.

È un verbo che, in greco, contiene un’allusione alle ‘viscere materne’.

Gesù viene ‘toccato’, coinvolto, dallo sguardo. Non rimane indifferente al dolore dell’altro, al dolore di questa madre.

«Grande compassione».

La parola compassione, nel suo significato originario, non ha nulla a che vedere con il pietismo di chi dice: ’poverino” e poi se ne va per i suoi affari, abbandonando l’altro, contento in cuor suo che non sia capitata a lui!

La compassione è il sentire con l’altro. È la capacità di mettersi nei panni dell’altro, senza abbandonare i propri. È il sentimento che ti porta a immaginare di essere con l’altro, al posto dell’altro, anche se sai di non essere l’altro.

La compassione è l’ospitalità profonda dell’altro, pur nel permanere nella differenza!

La compassione appartiene ai grandi sentimenti dell’umanità, come la simpatia e l’empatia.

Questa emozione in Gesù è grande. È una emozione che lo commuove e lo muove, lo spinge ad agire.

Sono tre i gesti e le parole che seguono. Dovremmo guardarli come al rallentatore per gustarne tutta la bellezza. Sono gesti di tenerezza, questi, di Gesù, dove risplende e appare la sua profonda umanità e, proprio in questa sua umanità, si manifesta la sua divina grandezza, la sua differenza da noi.

Qui appare il ‘potere’ di Gesù sulla morte. Là dove noi siamo impotenti, lui è potente.

«E le disse: «Non piangere!».

È una sola parola. Gesù va subito all’essenziale. Ha già deciso. Nemmeno le ha chiesto nulla. Si rivolge diritto alla madre. In questa sua parola c’è una promessa, anche se la donna la scoprirà soltanto dopo, in tutta la sua portata.

Nelle parole di Gesù c’è qualcosa di profondamente simile e anche di diverso dalle parole che noi diciamo o vorremmo dire quando ci troviamo in situazioni analoghe.

Vorremmo dire: «Non piangere!». Ma come possiamo?

Le nostre parole risulterebbero una consolazione vana, un’insopportabile superficialità. Perché noi non possiamo togliere la ragione, il motivo del pianto dell’altro.

Invece il: «Non piangere!» di Gesù è tutt’altro.

Sono parole delicatissime. Come una promessa, una speranza incredibile.

Il secondo gesto: «Si avvicinò e toccò la bara, mentre i portatori si fermarono».

È un gesto inusuale. Gesù impone una pausa a quel corteo di morte. Ha l’autorità per farlo. Un’autorità diversa. Ben più di quella di un semplice profeta, come nella prima lettura, dove il profeta Elia deve per tre volte distendersi e respirare sul corpo di quel bambino perché il Signore gli ridia vita.

Qui Gesù ferma la morte stessa e il cammino degli uomini verso la morte.

Terzo gesto, che è una parola: «Ragazzo, dico a te, àlzati!».

Si rivolge al morto, come se fosse vivo, e così lo rende vivo. Il morto lo ascolta e gli obbedisce. Si alza. Ri-sorge, toccato dalla parola di Gesù, dalla potenza meravigliosa dell’amore, della compassione di Dio!

A conclusione Gesù ‘restituisce’ quel figlio alla madre.

L’ultimo gesto di delicatezza, personalissima, di Gesù. Non è detto nulla della madre, ma possiamo immaginare il suo stupore e la gratitudine immensa per questo dono.

Tutti però sono colpiti, glorificano Dio e riconoscono chi in Gesù un profeta e chi la visita stessa di Dio, diffondendone la fama.

È la forza della vita che rinasce per amore!