Il racconto di una mamma adottiva: “La mia famiglia è salva, ma mio fratello è dall’altra parte della barricata”

IMG_1319In un improvvisato campo profughi allestito in una fabbrica abbandonata di Kiev, il “nostro” free lance Matthias Canapini, accompagnato dalla referente di Amici dei Bambini in Ucraina, Masha, incontra altri sfollati della guerra civile che si sta combattendo nel Paese est-europeo. Pubblichiamo oggi la seconda parte del suo reportage.

 

 

Entriamo in un ufficio di colore bianco, nessun quadro alle pareti. Conosciamo Lina Sokolova e il marito Andrei, 3 figli di cui 2 adottati. Sono sfollati da Alcevsk e sono arrivati qui a Kiev il 10 giugno. Anche loro danno una mano come responsabili aiuti dentro al campo. Lina si siede su un comodo divano marrone, mi guarda ed esordisce: “Le persone rimaste nei centri di fuoco nelle zone Est sono lasciate a loro stesse. Nella nostra città è rimasto un centro per anziani completamente abbandonato dal personale. Molte persone stanno soffrendo la fame e da qui proviamo a mandare qualche aiuto ma il prezzo dell’olio ad esempio è cresciuto di 4 volte. Alcuni civili hanno scelto di rimanere lì e aiutare i più bisognosi”  afferma sorridendo dolcemente. Schiaccio il testo “play” della macchina e Lina continua serena e determinata: “Siamo scappati qui a Kiev perché verso la fine di maggio numerosi soldati russi sono arrivati in città. È iniziato tutto così, molto semplicemente. La situazione poi si è aggravata quando per le vie di Alcevsk è arrivata l’artiglieria pesante e tante macchine militari. Mi sono fatta coraggio, avevo molta paura ma sono comunque andata oltre a chiedere spiegazioni. Tutti ragazzi giovani, alti, muscolosi, ben equipaggiati, armi professionali, vestiti come nei film! Ho chiesto da dove venivano e mi hanno risposto velocemente in russo: ‘Rastov’, per poi tornare alla loro conversazione.  Mentre mi allontanavo ho guardato negli occhi uno di loro. Occhi freddi, profondi, e ho capito che erano venuti per ammazzarci tutti quanti. Sono tornata di corsa a casa, abbiamo preso i bambini e siamo partiti. Già iniziavano a sparare per strada, molti soldati si stavano addestrando nel centro città e le persone come noi avevano paura anche solo di uscire o comprare qualcosa al negozietto del quartiere. Questo è accaduto il 10 giugno. La cosa più incredibile di tutto ciò è che mio fratello combatte dall’altra parte della barricata, nelle fila dei separatisti filorussi. Mi ha detto di scappare da Kiev perché le forze russe entreranno in Ucraina e arriveranno fino a qui. Io credo che i soldati vengano incoraggiati anche in questo modo, infondendo loro sicurezze non confermate. In ogni caso siamo scappati appena in tempo e ringrazio Dio per questo. Ora la città è in preda al caos, non c’è pane né acqua, molte abitazioni sono completamente distrutte e gruppi armati di banditi pattugliano le strade. Questa è la mia storia, raccontata senza filtri e vista con i miei occhi. Non so dove finiremo ma affronteremo ogni situazione con fede e coraggio”. Il finale è un tuffo al cuore, stringo la mano a Lina e rifletto sulle sue parole. Dalla metà di aprile si contano almeno 1.150 morti tra civili e militari e più di 3.400 feriti. Esecuzioni sommarie e stupri. Profughi e sfollati interni. Penso alle storie incontrate in Siria, in Bulgaria, e a quelle che potrei e potremmo ascoltare a Gaza, Iraq, Afganistan o Kurdistan. Un turbine di dolore, stanchezza, rabbia, rassegnazione, tristezza che non vede sfogo se non in dubbi o incertezze quotidiane.

È quasi pomeriggio inoltrato. Io e Masha salutiamo, ringraziamo tutti per la disponibilità e la gentilezza e torniamo verso il centro a bordo di un rapido metrò. Osservo le facce dei presenti, portandomi dentro ogni singolo sguardo di quelli appena incontrati e già lasciati.

Verso il tramonto mi personifico in un pony – express per consegnare dei documenti a Olga, figlia adottiva di una amica residente in Italia. Ci sediamo sulle scalinate di fronte al mastodontico stadio di calcio. So che Olga è un’infermiera già dai tempi dei disordini in piazza Maidan, così le chiedo come vede la situazione anche attraverso il suo lavoro. “A febbraio ci trovavamo vicini a Maidan, lavoravamo in un sobborgo di Kiev. C’era la fila nei supermercati per comprare da mangiare e fare scorta di cibo o per ritirare soldi al bancomat. Poi fortunatamente è tornata la calma. Ora invece ci stanno arrivando le prime vere informazioni, anche grazie al lavoro di molti attivisti. Le voci corrono, si parla di centinaia di morti a Est, città nel caos, stupri, rapine e sequestri. Le persone più vicine agli scontri stanno impazzendo, non sanno cosa fare! Coltivare la terra o continuare a allevare animali? A che pro – mi riferisce Olga in un italiano zoppicante, fissandomi negli occhi – ? Non ci sono certezze, intere famiglie stanno scappando perché la guerra incombe e molti hanno paura che tutto peggiorerà drasticamente. E tra le altre novità di questi giorni, al lavoro stanno parlando di introdurre una norma che vede il ritiro di una parte del nostro stipendio per comprare sostentamento alle truppe”. Le nostre strade si dividono e il mio breve compito come pony- express è giunto al termine. Torno verso l’ostello con un bel mal di testa e una tensione mista a preoccupazione salirmi da dentro.