Italia. Il percorso di una mamma e di una figlia. Un anno e mezzo per recuperare una famiglia

Quando finisce un progetto ci rendiamo conto che non solo le ospiti sono cresciute. Ma siamo cresciute tutte noi che lavoriamo con loro e per loro.

 Entro in comunità per un saluto. Non ho riunioni da fare, ne altro. Voglio solo passare a salutare le nostre operatrici e i nostri ospiti, grandi e piccoli.

In un pomeriggio invernale, di questo anno faticoso, i miei occhi si fermano su di lei.

Ricordo la telefonata ricevuta a metà agosto di quasi 2 anni fa. Mi aveva chiamata un’ assistente sociale con cui collaboriamo da anni. Mi ha parlato di questa giovanissima mamma che aveva bisogno di fare un percorso in comunità e mi chiedeva se avessimo posto.

Lei aveva all’epoca una bimba di quasi 2 anni e il servizio sociale ci chiedeva di fare una “valutazione delle competenze genitoriali”.

Dopo un nostro confronto leggendo la loro storia, abbiamo deciso di accoglierle.

Una storia ricca di episodi faticosi, tante persone coinvolte, che ti fanno vivere un turbinio di emozioni che, in alcuni casi, ti “asfaltano”. Storia che sapendo che la protagonista è una ragazzina di appena 20 anni, ti stupisci del fardello che le sue spalle si sono “abituate” a portare.

Quando dobbiamo dare una risposta alla domanda di disponibilità che i servizi ci fanno, entrano in gioco davvero tanti aspetti da valutare:

siamo davvero preparati ad accogliere questo nucleo con queste fragilità? Possiamo essere davvero noi a sostenere, a dare una risposta ai loro mille bisogni o è meglio per loro un’altra struttura? Se diciamo a loro si, le altre ospiti presenti quali difficoltà potrebbero vivere? le altre mamme come potrebbero reagire con il loro ingresso?

Sento molto il peso del mio si di fronte alla valutazione per un ingresso di una mamma in comunità.

Sento la responsabilità di dover valutare l’equipe di educatori meglio rispondenti alla sua storia. Sento di voler portare rispetto alla sua storia e alla sua vita. Sento di essere responsabile di un pezzo della sua strada, che se progettato bene, se curato nei dettagli, può determinare un cambiamento e spezzare una catena di fragilità che l’ha portata a stare in comunità.

Quando le abbiamo conosciute i primi giorni di settembre, le abbiamo incontrate presso i servizi sociali.

Nei km fra il servizio e la comunità non siamo riuscite a scambiare molte parole, ci ha pensato la bimba. Ester, la mamma, sembrava una bimba con una bimba. impacciata nel gestire i capricci della figlia, giustificando e spiegando tutto, ma sforzandosi di mostrarsi preparata alle nostre domande, utili per iniziare la nostra conoscenza.

Molto spesso il percorso di una mamma in comunità attraversa 3 fasi.

La prima è quella “dell’innamoramento” verso la struttura: mi mostro adeguata, sempre sorridente, dico sempre si agli educatori. È  la fase in cui gettiamo le basi per far si che la mamma possa fidarsi di noi. Per le nostre mamme c’è anche l’intenzione di provare ad accorciare i tempi del loro stare in comunità. Se “faccio la brava”, loro scrivono una buona relazione ed esco subito da qui.

La seconda fase è quella più vera e autentica. dove per noi educatori c’è “materiale di lavoro”: finalmente la mamma si scioglie e porta in struttura la sua vera essenza in tutta la sua completezza e complessità. Questa seconda fase è quella dove si riesce a dimostrare che può fidarsi di noi, dove molte delle nostre azioni sono determinate al dare a lei prova tangibile che può affidarsi e che non abbiamo intenzione di mollare.

 Questa fase a volte dura tanto. per la nostra Ester è durata tanti e tanti mesi, dove ha provato a provocarci, a mettere in discussione le regole (la puntualità non è mai stata il suo forte), a minacciare di mollare tutto il percorso, a mandarci anche a quel paese, a mettere in atto gli stessi atteggiamenti che l’hanno portata a stare in struttura.

Ester si stupiva che ogni volta, dopo ogni discussione, dopo ogni suo pianto disperato, ha sempre trovato la porta del nostro ufficio aperta, aperta e pronta al dialogo, al riappacificarci, al chiarirci e ad ascoltarci.

In questa seconda fase l’equipe entra nel vivo della relazione fra mamma e il suo bambino. Attraverso alcuni interventi abbiamo dimostrato a Ester di poter parlare in un modo differente alla piccola, di poter vivere i momenti della quotidianità con strategie diverse, facendole vedere che esistono tante sfumature per fare le mamme. In questa fase Ester ha avuto il coraggio di ammettere che ci sono cose che lei non sa fare ed è riuscita anche a dire che non lo sa fare perché, a sua volta, non le ha mai vissute con sua mamma.

Ester ha imparato la prima ninna nanna da noi. Ora ne conosce molte altre. Ester ha imparato che per sua figlia è più divertente giocare al parco che andare al supermercato. Ha imparato che ci si può mettere a terra e giocare con la bimba, ma che è anche giusto aiutare i bambini a spiegare le cose, con le giuste parole, a imparare ad ascoltare i grandi e molte altre cose ancora…

In questa fase Ester è riuscita a osservare gli interventi, le spiegazioni e la modalità degli educatori e successivamente li replicava. inizialmente venivano replicati con una modalità rigida, imitando completamente gli operatori. Usava le stesse parole, ma senza una reale intenzionalità. Poi nel corso dei mesi, è riuscita a farli propri. piano piano.

Veniva in ufficio a chiamare gli educatori quando sua figlia alzava le mani su altri bambini o quando iniziava a piangere. L’equipe le ha spiegato come fare, le ha dato gli strumenti per far si che fosse lei a consolare la bambina, fosse lei a gestire i capricci e la rabbia della piccola.

Quello che Ester ha sempre apprezzato, e che ha riconosciuto durante i nostri colloqui quotidiani, è stata la nostra decisione di non sostituirci a lei nella gestione della sua bambina.

 Piano piano ha smesso anche di venire a bussare alla nostra porta quando sua figlia faceva i capricci e lì abbiamo capito che stavamo entrando nella terza fase del nostro percorso, quella in cui ci prepariamo a far prendere il volo alle nostre ospiti.

Durante tutto il percorso ci sentiamo dire, spesso, che non vedono l’ora di andare via dalla comunità. In questa fase, ci dicono “ci mancherete” e alternano momenti in cui tutta la sicurezza nel voler andare via, non la rendono così esplicita, perché il distacco a loro fa paura.

 La fatica vissuta nell’avere sempre accanto operatori, giorno e notte, e poi la fatica di immaginarsi con i loro occhi sola, nel mondo, con il proprio bimbo.

Con Ester stiamo ultimando la terza fase. Abbiamo scritto la relazione da mandare al Tribunale in cui diciamo a chiare lettere che Ester è capace di fare la mamma di Sofia e che Sofia è cresciuta tantissimo. Per loro proponiamo un ulteriore passaggio,  ancora un pezzo di strada da fare insieme in un alloggio per l’autonomia, in modo da aiutarla a cercare un lavoro e poi una loro casetta.

Oggi  la guardo in comunità. Vedo come si muove, sento come parla con Sofia e pur essendo ancora molto giovane, non la vedo più bambina. Lei è una donna e madre che conosce molto bene la sua piccola. Ha imparato a mettere in primo piano sua figlia. La sua unica priorità è lei.

Cosa ha funzionato con Ester?

E’ servita una relazione autentica e sincera fra lei e tutti gli operatori, moltissimi gesti di cura e protezione che Ester ha potuto sperimentare e che oggi sa riprodurre nei confronti della sua bambina.

Tanto tanto maternage nei suoi riguardi da parte dell’equipe. Lei ha ammesso in alcuni momenti che aveva bisogno della sua mamma. Oltre a tanta tanta pazienza.

Quando finisce un progetto ci rendiamo conto che non solo le ospiti sono cresciute. Ma siamo cresciute tutte noi che lavoriamo con loro e per loro. Ogni storia ogni persona che incontriamo contribuisce sia alla nostra crescita professionale, ma soprattutto ad una crescita personale.

Mi squilla il telefono, è un’assistente sociale… mi chiede se abbiamo disponibilità di posti per una mamma con due bambini … si ricomincia….

Valentina Bresciani