La guerra raccontata dai bambini: “Esplodevano bombe, crollavano case. E la mia mamma è rimasta lì”

IMG_1459Quarta e ultima parte del reportage del free lance Matthias Canapini che, in un sobborgo di Kiev, incontra alcuni bambini fuggiti dall’Est dell’Ucraina in preda agli scontri e ai bombardamenti. In molti di loro si legge la paura della guerra e la voglia di tornare a vivere nella pace di una famiglia.

 

Masha, la referente di Amici dei Bambini in Ucraina,  mi aspetta al capolinea della stazione metrò per poi raggiungere insieme Puscha Voolitsa, località fuori Kiev dove circa 40 bambini sfollati da Donestk hanno trovato rifugio. Il centro medico offre cure per i bambini affetti da radiazioni post–Chernobyl: un luogo tranquillo, ventilato, immerso nel verde. Un luogo per pensare, giocare e distrarsi, cercando di recuperare le forze mentali e fisiche.

Quando arriviamo sul posto parliamo con Liubov, signora energica e decisa, attivista pro–Maidan fin dall’inizio della protesta, nonché infermiera e medico. “Siamo andati di persona a Sloviansk  – ricorda – con un furgoncino per evacuare i bambini che da settimane vivevano negli scantinati, in piena guerra. È molto difficile far evacuare i civili ora, l’esercito ucraino organizza corridoi umanitari ma stanno aumentando i check point lungo la strada. Giungono voci che i separatisti bloccano i corridoi umanitari, sparano e impediscono persino ai civili di evacuare. I quartieri popolari sono presi di mira e bombardati. Quando abbiamo portato gli aiuti al fronte, avevamo cereali, bevande, giochi, vestiti, coperte e prodotti per l’igiene, caschi e giubbotti antiproiettile. Ora sono arrivati 40 bambini da Sloviansk, 8 da Donetsk più i 10 bambini già presenti nella clinica”. Liubov si interrompe mostrandoci alcune foto in cui si vedono case distrutte, posti di blocco, i volontari che indossano giubbotti antiproiettile e le macerie di un ormai ex sanatorio per malati mentali, occupato di forza dai separatisti ma liberato dall’esercito ucraino. Peccato che una volta scoperti, i filorussi abbiano fatto esplodere l’impianto, riducendolo a un ammasso di calcinacci e mattoni. “Quindi una volta organizzato il piano per evacuare i bambini, abbiamo avuto i permessi dal ministero della Sanità, ed eccoli qui. Ora sono aiutati da un sacco di volontari, persone comuni che risiedono a Kiev, vogliose di prodigare benevolenza e affetto per una causa che ci unisce tutti”.

 

Entriamo nella struttura e veniamo accerchiati lentamente da un gruppo di bambini curiosi. Ci avvisano che la maggior parte di loro è ancora sotto shock, spaventata e traumatizzata dall’orribile esperienza vissuta. Alcuni sono orfani o hanno perso un membro della loro famiglia. Necessitano urgentemente di affetto e sostegno psicologico. Cammino tra loro, li guardo, cerco di farli sorridere anche se forse non sono la persona più adatta. Vanno dagli 8 ai 14 anni d’età. Molti sono mogi, con la faccia triste, si limitano a stare seduti abbozzando un timido sorriso. Cautamente qualcuno si fa avanti, si siede tra me e Masha e cominciamo a parlare. Andrei, 10 anni. Ha 6 fratelli che vivono con lui nel campo, e altri 4 (i più piccoli) che sono rimasti a Sloviansk con i genitori: “Bombardavamo molto – ricorda -! Crollavano case ed esplodevano cannoni e bombe vicino a noi! Vicino alla nostra città hanno distrutto 3 case con un solo colpo! Avevamo molta paura”. Sasha, 10 anni: “Quando siamo partiti da Donetsk ancora non c’erano spari fortunatamente, ma ho tanta paura di perdere la mia casa!” Mark, 9 anni: La mia mamma è rimasta in città. La prima cosa che ho chiesto quando i volontari mi hanno fatto uscire dalla cantina è stata di portarmi lontano da dove cadono le bombe: ero molto spaventato”. Scorrono attimi colmi di tristezza e rabbia: mi ci immergo con tutto me stesso.

Passano i minuti e faccio la conoscenza di Andrei, 14 anni.  Sguardo sicuro, ma in grado di far trapelare paure e insicurezze interne. Si rende disponibile per un’intervista, accetto molto volentieri. Ciò che racconterà, con il suo sguardo da grande ma con gli occhi ancora impauriti, mi toccherà nel profondo per la saggezza e la malinconia che racchiude. “Vivevo con mia nonna e il mio padrino a Donbass. Con il motorino avevo l’abitudine di superare i check point dei filorussi. I primi 2-3 andavano bene, ma quando procedevi verso i territori occupati iniziavi a vedere siringhe e bottiglie vuote di vodka. I soldati si ubriacano e iniziano a picchiare i civili inermi. Ho visto stuprare ragazze e bombardare quartieri civili. Ormai è impossibile vivere nelle zone occupate, quando sparano o bombardano esplode tutto. Per strada c’erano degli scontri e io mi trovavo in camera davanti al computer quando un proiettile ha colpito lo schermo rompendolo per metà! Non capisco a cosa serva questa guerra”.

Ci guardiamo. Potrebbe essere mio fratello minore. Tra me e lui c’è un metro di distanza, ma a dividerci c’è un mondo, uno stato d’animo, uno shock e una guerra. Un contesto che non posso capire. Tra di noi c’è un’adolescenza mutilata, che per quanto mi sforzo non capirò mai, perché la mia è fatta di partite di calcio, casette sugli alberi e partite alla Play Station. La sua forse era tutto ciò, ma a un tratto è diventato buio. Spari. Bombe. Silenzio.