L’inferno di Lampedusa: la testimonianza di un turista

Profughi_Lampedusa200Sveglia presto per ammirare l’alba da Cala Pisana, le nuvole che rovinano lo spettacolo, colazione, zaini in spalla e in sella allo scooter via verso la Spiaggia dei Conigli.

Che c’era qualcosa che non andava l’abbiamo capito subito, elicotteri, incrociatori, mezzi dell’esercito erano in fermento. Ma non ci abbiamo fatto molto caso, dopo 3 anni ti abitui presto alle cose strane di Lampedusa e abbiamo continuato verso il mare.

Arrivati all’ingresso della Spiaggia dei Conigli, una pattuglia dell’esercito ci blocca l’accesso. Chiediamo informazioni, ma ne sanno quanto noi, se non che «dovrebbe esserci stato un naufragio». Estraggo la macchina fotografica, zoomo su quell’incantevole mare, e si vede un gommone con delle persone coi giubbotti di salvataggio. Incuriositi i militari sbirciano la mia foto e si lasciano andare uno «speriamo li abbiano salvati».

Ci spostiamo a Cala Croce, il telefono inizia a squillare, amici e parenti preoccupati e ansiosi per quello che stava succedendo. 4..10..100 morti! In spiaggia regna un irreale silenzio. Tutti con lo sguardo verso il mare, a pregare, piangere, sperare che i numeri smettano di salire. Una fregata della Guardia di finanza cala il gommone… dopo poco lo recupera. 101!

Arrivano le prime notizie. Un barcone si è rovesciato a mezzo miglio dalla Spiaggia dei Conigli, tra l’isolotto e la Tabaccara. E noi ancora lì, con gli occhi lucidi, la rabbia per il sentirsi impotenti, l’incredulità per quello che è successo. Quel tratto di mare, il più bello del mondo, dicono, trasparente, così calmo, con quel leggero scirocco… in mezz’ora sarebbero arrivati sulla spiaggia. Eppure hanno deciso, perché così gli era stato detto, innaffiati di nafta, di dar fuoco ad una coperta per farsi vedere dalla costa, (in quel punto l’isola è disabitata) e da lì la tragedia.

E siamo a 156. E comincia a entrarti nella testa una domanda «a chi giova?». Rientriamo tristi a casa, ci aspetta Pina, con gli occhi lucidi: i sui fratelli, pescatori, hanno salvato venti persone, ma per le altre non hanno potuto far nulla, le hanno viste andar sott’acqua e non più riemergere. Altri, racconta, sono scappati, erano state raccontate loro falsità sulla legge, e per paura di perdere tutto (e quando vivi di pesca la tua barca è tutto) hanno perso l’umanità. E ancora ronza nella testa la stessa domanda «a chi giova?».

Accendiamo la tv, e non puoi non arrabbiarti, la realtà, quella che fino ad un attimo prima era lì davanti a te, la potevi quasi toccare con mano, viene ribaltata, romanzata, inventata. La notte è stata movimentata dall’andirivieni degli elicotteri, in volo alla ricerca di cadaveri. Al risveglio regna il silenzio, i negozi chiusi, i bar con le serrande abbassate e il mare, lo stesso mare cristallino di poche ore prima, mosso, scuro, quasi arrabbiato e a lutto, come se si sentisse in colpa per essersi preso delle vite.

La sera, senza pensarci viene naturale partecipare alla fiaccolata per commemorare i defunti, in silenzio percorriamo tutti (abitanti, turisti) via Roma, dalla chiesa al balcone che dà sul mare dove ci fermiamo qualche istante a fissarlo, pregando. Di fronte a noi il molo Favarolo ormai deserto con la catasta di metalline usate dai superstiti.

Accanto a noi alcuni di questi uomini, alcuni con le lacrime agli occhi, altri intenti a deriderci, alcuni coi vestiti del Cie, altri con vestiti firmati, smartphone e tablet. È la domanda, quella presuntuosa, torna: «A chi giova?». Alla fine la conta a 366 cadaveri recuperati.

Non voglio chiamare questi uomini clandestini, piuttosto che profughi, come se la morte, cambiando loro il nome, abbia un valore diverso: santi o criminali. Eppure sono tutti uomini. Ma, l’ideologia deve sempre prevalere…sulla verità, sulla realtà, sulla vita. E con tristezza e sicurezza posso affermare: a nessuno, ma proprio nessuno, interessa di questi uomini. Per alcuni sono i nemici, per altri, che a parole li difendono (magari incoraggiandoli a queste traversate), fonte di lucro, ma per nessuno sono quello che sono realmente: uomini.

Uomini che per inseguire un futuro fuggono dal loro passato, fatto per alcuni di gesti eroici, per altri fatto di ignobili crimini. Mettendo a repentaglio la propria vita, e soprattutto quella degli altri. Ma comunque uomini. Di quei giorni resta il ricordo indelebile: l’immagine di quel paradiso trasformato in inferno per interessi, di quegli occhi pieni di speranza o iniettati d’odio, dei pianti o delle risate, lo sguardo triste dei pescatori, il silenzio e una domanda: a chi giova?

Adriano Filippa Prevalle

Fonte: Il giornale di Brescia