Perché vanno chiuse le comunità educative entro il 31.12.2017?

bimbo-alla-finestra 200Numeri che fanno accapponare la pelle: in Italia sono quasi 30mila i minori fuori famiglia, e fra questi, poco meno di 15mila vivono in comunità educative. Tra loro 1626 sono bambini al di sotto dei sei anni.

Oltre la metà finisce nelle comunità educative, strutture che non differiscono molto dagli istituti chiusi per legge a partire dal 2006. L’unica variante è il numero di minori accolti: le comunità educative possono ospitare non più di 12 bambini per volta. Vengono affidati alle cure di figure professionali quali sono gli educatori. Molto lontani dall’immagine di un padre e una madre.

Alcune comunità educative hanno cercato di sopperire alla carenza di punti di riferimento certi, prevedendo la doppia presenza di un educatore e un’educatrice, ma è ridicolo pensare che questo modello possa costituire un surrogato di famiglia.

Nonostante la legge preveda l’esistenza di comunità di tipo familiare, «caratterizzate da organizzazione e da rapporti interpersonali analoghi a quelli di una famiglia», resta il fatto che i bambini nelle comunità educative crescono senza entrare in una relazione familiare , così come sancito  dalla  149 per ogni minore collocato fuori dalla sua famiglia. 

Un diritto viceversa  a cui possono rispondere le Case Famiglia, gestite da una coppia sposata, o le famiglie affidatarie. I bambini, infatti, hanno bisogno di accoglienza, non di assistenza.

Di qui l’obiettivo promosso da Ai.Bi. di fissare la chiusura entro il 31 dicembre del 2017 delle comunità educative, le quali non rispondono al bisogno primo dei bambini, che è quello di essere amati da un padre e una madre.

A chi obietta che mancano all’appello 15mila famiglie disposte ad accogliere i minori in difficoltà, la replica è una. Mancano perché esiste uno scollamento tra chi prende in carico i minori, finora il pubblico, e chi deve convincere le famiglie a diventare affidatarie, cioè il privato sociale.

La proposta di Ai.Bi. è da un lato affidare il settore dell’affido al privato sociale, dall’altro è promuovere la riforma dell’affido con una nuova legge. Che intanto cambi le parole, e con esse la sostanza. Non più ‘affido’, ma ‘Affidamento Temporaneo Familiare’ (AFT). L’obiettivo è quello di sottolineare che l’ affido è una soluzione temporanea, non definitiva. Dopo due anni, i minori in affidamento o rientrano nella famiglia d’origine o devono essere dichiarati adottabili. Il primo diritto che va garantito a un bambino è quello di non vivere nel limbo, fatto di due mamme, due papà, due famiglie. Caos che puntualmente si verifica nei casi di affido ‘sine die’.

Ma di fronte al mare di bambini in difficoltà non ci si può rassegnare a percorrere solo le vecchie strade. Vanno sperimentate soluzioni alternative e innovative, possibili solo se la gestione dell’affido uscirà dalle competenze ingessate delle istituzioni pubbliche e verrà assegnato al privato sociale. Senza che diventi una giungla: sufficiente prevedere un albo riservato agli enti autorizzati.

Le associazioni, gli enti privati o le cooperative possono offrire alla famiglie affidatarie o a quelle che vorranno aprire una Casa Famiglia un percorso di formazione e accompagnamento.

Solo se le famiglie sentiranno di non essere sole nella gestione di questi minori, il loro numero tornerà a crescere. Ma occorre  una presenza massiccia sul territorio, una sensibilizzazione delle coppie affidatarie; nonché l’accompagnamento di famiglie tutor per i nuclei familiari che sono disponibili a vivere l’esperienza dell’affido.