Perdonare a chi ci ha fatto del male?

La parola di Dio, questa domenica, ci ‘colpisce’ mettendo al centro un’esperienza insieme bella e difficile della vita: il perdono. La bellezza e la difficoltà stanno in questo: è difficile perdonare, ma è bello essere perdonati.

Il perdono, quindi, ha due facce, che rendono questa esperienza nello stesso tempo attraente e ostica, respingente.

All’origine (della possibilità) del perdono c’è un male ricevuto, un’offesa, una colpa. Questo ci fa sentire in debito «verso l’altro, se il male nei suoi confronti l’abbiamo commesso noi o ci fa sentire l’altro debitore nei nostri confronti, se il male l’ha commesso lui.

Il male, ricevuto o compiuto, è sempre collegato al debito: se compio il male mi sento in debito rispetto a colui che ho ferito e danneggiato, e viceversa.

La difficoltà a perdonare sta proprio in questo: cancellare il debito sembra un atto di ingiustizia. Uno che sbaglia deve pagare.

La tentazione, poi, è quella di fargliela pagare.

Così come dice la prima lettura, ira, rancore, collera, odio, vendetta, sono sentimenti che nascono spontanei in noi, quando subiamo un torto.

All’ira, alla collera, che sono immediati, succede facilmente il rancore, il risentimento: allora protestiamo, ci pare insopportabile quello che l’altro ha compiuto contro di noi.

Dal risentimento nasce la tentazione, prima, e poi la decisione della vendetta. Così, da persone che hanno subito il male, diventiamo gente che lo compie, in una specie di spirale, sempre più insostenibile. Il male si moltiplica, senza misura.

Dopo il male, la vendetta ne fa un altro ancora peggiore. Senza fine.

«Rancore e ira sono cose orribili, e il peccatore le porta dentro».

Questo non succede solo nelle relazioni personali, ma anche – e soprattutto – nei rapporti tra i popoli, tra le nazioni, tra le culture, a volte, tra le religioni, o tra i gruppi … e così via. La storia, personale e del mondo, ci offre uno spettacolo desolante, sconsolante, dal quale, però, nessuno di noi si può tirare fuori.

Il male diventa come una ‘morsa’ tremenda, che non molla la presa e ci rende prigionieri di noi stessi, appunto ‘cattivi’.

È su questo sfondo che sentiamo molto ‘nostra’ la domanda di Pietro a Gesù, posta all’inizio di questo Vangelo: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?».

«Quante volte …?». Già questa domanda suggerisce quanto sia difficile, ai nostri occhi, ‘dare’ perdono.

Il perdono è un atto di grazia, che cancella il torto dell’altro. Per questo, appunto, ci appare anche un’ingiustizia. Allora, magari, siamo disposti a perdonare, ma fino ad un certo punto: una, due, tre volte, fino a sette perfino, ma poi diciamo: basta! Altrimenti l’altro se ne approfitta, e questo, per noi, rischia di diventare insostenibile, pesante, umiliante.

Pensiamo a tante occasioni che ci possono capitare al lavoro, tra colleghi, o anche in famiglia, tra marito e moglie, tra fratelli e sorelle, oppure nella comunità cristiana, o in un gruppo di amici o di volontariato.

Alla domanda di Pietro Gesù risponde con una famosa parabola, con la quale egli ci chiede di ‘spostare lo sguardo’, di non concentrarlo anzitutto su noi stessi quando dobbiamo perdonare.

Gesù ci chiede di guardare soprattutto l’esperienza dell’essere perdonati. Non solo: Gesù ci costringe ad alzare lo sguardo, passando dai rapporti tra noi, orizzontali, al rapporto con l’Altro, con Dio, in verticale. Questo ci ‘costringe’ a cambiare prospettiva, sguardo, punto di vista.

Gesù ci chiede di pensare anzitutto alla bellezza di essere perdonati e poi, a partire da qui, al ‘dono’ del perdono, da dare, perché lo abbiamo ricevuto.

«Il regno dei cieli è simile [a un re che volle regolare i conti con i suoi servi]». Questo è il Regno di Dio! Qui Gesù ci parla di come Dio agisce nella storia, nostra e del mondo.

Ovviamente «il regno» non è un regolamento di conti.

La piccola storia raccontata da Gesù dice che uno dei ‘servi’ aveva un enorme debito nei confronti del suo re. Era un debito ‘insolvibile’, che lui «non era in grado di restituire».

Ecco, proprio questo è il punto che, forse, a noi sfugge. Dinnanzi ai doni ricevuti da Dio, e alla nostra ingratitudine, alla fine noi ci troviamo nella condizione di non poter restituire. Già il dono ricevuto non possiamo ‘restituirlo’.

Ma non c’è solo il debito del dono. C’è anche il debito della colpa. Non è la stessa cosa, anche se noi, spesso, li mischiamo e li confondiamo.

Il debito della colpa è (almeno) doppio: non è solo essere debitori perché abbiamo ricevuto un dono – questo debito sarebbe addirittura bello! – ma è il debito di essere ingrati, non riconoscenti.

Così, il dono viene ribaltato e diventa occasione di male.

Questa è la storia della nostra libertà.

Il ‘dramma’ raccontato dalla parabola dice che «il padrone» ordina di vendere il servo, con la famiglia e tutto quanto possedeva, per poter così ‘saldare’ «il debito». Se avesse dovuto pagare, quel servo avrebbe perduto tutto.

«Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava».

A questo servo non rimane altro che questo.

Per non essere rovinato, chiede, con forte supplica: «Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa».

Questo servo fa una promessa impossibile. Non avrebbe mai potuto ‘saldare il debito’.

E qui accade la ‘grazia’ del re o perdono: «ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito». Ecco che cos’è il perdono ricevuto da Dio: è un con-dono, è un atto di grazia, è non-dovuto, non-scontato.

Il perdono, qui, nasce dalla com-passione, che non è pietismo, ma è la capacità del re di ‘sentirsi’ come il suo servo, è la capacità di mettersi nei suoi panni, per dargli una speranza di un nuovo inizio.

Notate: non è che il re/padrone dice: “va bene, aspetto che tu abbia di che restituirmi”. No, gli condona, radicalmente, il debito.

La storia procede con un cambiamento di piano: il servo, perdonato, incontra un altro servo, uno come lui (sarebbe quindi più facile la ‘com-passione’, in teoria!), che ha un piccolissimo debito nei suoi confronti, un nulla in confronto al debito che gli è stato appena condonato’.

Contro questo compagno lui, che era appena stato perdonato, infierisce, lo prende per il collo, lo soffoca.

L’altro lo supplica, con le sue stesse parole. «Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito».

A questo punto, però, informato dagli altri servi, scandalizzati, il padrone ‘ritira’ il perdono, il condono: «sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto».

Questo non significa che il ‘perdono’, la misericordia di Dio ha anch’essa un limite, come se Dio si stancasse di perdonarci. No!

La Parola di Gesù ci dice che il perdono, ricevuto da Dio, è un atto di grazia, che innesca e fa partire una relazione: Dio chiede la nostra risposta a questo suo atto di grazia!

E questa risposta si decide nelle relazioni fraterne: se noi non ci perdoniamo, gli uni gli altri, perdiamo – perché lo rifiutiamo noi- il dono gratuito del perdono.

La grazia di Dio, per essere accolta, chiede di essere testimoniata e ri-donata.

 

don Maurizio

17 settembre 2017