Siria. Dal Libano alla Grecia, dove per l’accoglienza non c’è più posto. Milioni di siriani non vogliono cadere nella trappola dell’emigrazione: aiutarli ora è possibile

siria1Sostegno a distanza Siria – “Ci prendono e ci lasciano senza cibo e senz’acqua per giorni”. È la voce di migliaia di migranti bloccati nel limbo: non sono più a casa loro e non possono proseguire il loro viaggio verso l’Europa. L’emigrazione, la fuga dal loro Paese, si è trasformata in una trappola. Così come per le migliaia di profughi ammassati nei campi di raccolta in Grecia o in Libano. Tra loro tantissimi siriani che all’estero hanno trovato una disperazione forse addirittura peggiore di quella lasciata in patria. Dove, se è vero che da 5 anni si combatte una guerra che pare interminabile, è anche vero che ci sono le loro radici: la base da cui ricominciare. Ecco perché sono sempre di più i siriani che non vogliono lasciare il proprio Paese e che provano a posare lì la prima pietra del loro futuro. Quei 6,5 milioni di sfollati interni che Amici dei Bambini vuole aiutare con la campagna di sostegno a distanza per la prevenzione dell’emigrazione Io non voglio andare via, nell’ambito del progetto Bambini in Alto Mare.

Per chi tentava la fuga all’estero, uno dei Paesi fino a oggi più aperti all’accoglienza era il Libano: sono almeno 1,3 milioni i siriani arrivati qui in 5 anni. Ma ora la situazione è al collasso anche a Beirut e dintorni. Infrastrutture, strade, fognature, elettricità, ospedali, scuole sono sottoposte a uno stress senza precedenti. Per i siriani ottenere un permesso di lavoro è diventato più difficile e costoso. La crisi dell’edilizia ha tolto sbocchi fin’anche nel lavoro nero. Non ci sono più campi attrezzati. Gli unici posti disponibili si trovano nei cosiddetti “champignon”, chiamati così perché spuntano come funghi e sorgono su terreni privati dove, in cambio dell’ospitalità, i profughi sono costretti a lavorare gratis. Per molti di loro non c’è molta scelta: o tornano in patria o tentano la strada della Turchia. Ma in questo secondo caso, il viaggio arriva a costare anche 2mila dollari a testa.

E la situazione non migliora se si riesce ad approdare in Grecia. Dopo la chiusura della rotta balcanica, i profughi bloccati sul territorio ellenico sono almeno 50mila. Nel solo campo di Idomeni sono in 12mila. Oltre 4.200 nell’hotspot sull’isola di Lesbo, altri 2.800 in quello di Chios e più di 1.000 a Lero. Senza dimenticare i 1.500 accampati nelle strutture fatiscenti dell’ex aeroporto di Atene. “Mancano i traduttori, non ci sono gli operatori e gli ispettori per registrare le richieste di asilo”, dice uno dei pochi addetti alla sicurezza del porto del Pireo, dove sono ammassati in 4mila.

Nel frattempo gli arrivi non accennano a diminuire. Domenica 20 marzo sono sbarcate in Grecia altre 875 persone. E 4 cadaveri, tra cui quelli di 2 bambine di uno e due anni, annegate.

È per evitare tutto questo che serve al più presto restituire alla popolazione siriana una relativa sicurezza nel vivere nel proprio Paese. Questo lo scopo dell’iniziativa di Ai.Bi. che, nelle zone di Idlib e Aleppo, ha attivato interventi di prima e seconda accoglienza a favore dei tanti siriani che hanno perso tutto e non hanno più una casa, un letto in cui dormire, un fornello per scaldare un bicchiere di latte per i bambini. Con la distribuzione di ceste alimentari a 12mila persone, si vuole aiutare gli sfollati interni a recuperare una vita dignitosa. Ai.Bi., unica ong italiana operativa in Siria in collaborazione con le Nazioni Unite, grazie alla partnership di Unocha e alla generosità dei suoi sostenitori a distanza potrà ora contribuire a fare sentire tante famiglie siriane a casa nel loro Paese, nonostante la guerra. Per farlo, serve un supporto continuativo: il sostegno a distanza per la campagna Io non voglio andare via, piccolo gesto per ognuno di noi, ma grande speranza per il futuro di una popolazione che, altrimenti, non avrebbe un domani.

 

Fonti: Corriere della Sera, La Repubblica, La Stampa