Siria. La voce di chi vede la speranza sbattere contro un muro: “Non era questo che ci aspettavamo scappando dalla guerra”. Ecco perché serve aiutare i siriani che non vogliono andare via

distribuzione alimenti siria 23 marzoSostegno a distanza Siria Ormai si parla di “guerra” di Idomeni. Quella che combattono in migliaia, tra cui molte donne e tantissimi bambini, al confine tra la Grecia e la Macedonia. Un confine chiuso da un muro serrato da un doppio filo spinato che delimita non solo la separazione tra due Paesi, ma soprattutto la frontiera su cui la speranza va a sbattere e si trasforma di nuovo in disperazione. “Open the border”, “aprite il confine”, urlano i profughi siriani rimasti intrappolati nel loro sogno di raggiungere il nord Europa. A tutti gli effetti, è diventata una guerra anche questa. Combattuta però lontano dalla propria terra. Ecco perché, coscienti di questo, milioni di siriani ora non vogliono più lasciare il proprio Paese e cercano di ricavare spazi di sicurezza, in cui condurre una vita dignitosa, laddove hanno le proprie radici. È per aiutare queste persone che Amici dei Bambini ha lanciato la campagna di sostegno a distanza per la prevenzione dell’emigrazione Io non voglio andare via, nell’ambito della campagna Bambini in Alto Mare.

I racconti dei profughi danno loro ragione. Non era questo che ci aspettavamo quando siamo fuggiti dalla guerra – dice un anziano siriano accampato a Idomeni -. Perché se siamo andati via dal nostro Paese, lo abbiamo dovuto fare non per avere pane e aiuto, ma per salvarci dai bombardamenti e dai cecchini”. Per almeno 15mila persone, invece, questo angolo ai piedi dei Balcani è diventato un punto nel nulla e nella solitudine, in cui trascorrere una sorta di quarantena senza fine. Bloccati da un mese al gelo della notte, stanchi di aspettare e di dover vivere come fuggiaschi braccati, gridano per non essere dimenticati. Ma lo fanno in luogo desolato, in cui si è allestito un “gioco delle attese” che, in fondo, sembra non interessare a nessuno.

Seduti sulle pietre e sui binari della ferrovia, donne siriane in attesa di conoscere il proprio futuro cuociono ciò che possono: zuppe con quattro cipolle e due pomodori, mescolate sul fondo di un barattolo di latta, nero di fuliggine, con sotto un fuoco improvvisato, acceso non su legna, ma su pezze di felpe e stracci di coperte sintetiche.

È in queste condizioni che si trova a vivere chi ha scelto la via della fuga dal proprio Paese in guerra. Ridotto a combattere anche lì, dove in teoria la guerra non c’è, ma la battaglia per la sopravvivenza non è meno ardua, contro degrado e condizioni igienico-sanitarie sempre a un passo dallo scoppio di epidemie. Qualcuno non regge più l’attesa, come un uomo che a Idomeni ha  deciso di darsi fuoco continuando a gridare “open the border”, mentre lo trasportavano in ospedale.

Milioni di siriani hanno capito che la strada per la salvezza non passa necessariamente per l’emigrazione. E hanno deciso di restare. Anche se non hanno più una casa, un letto, un tetto sopra la testa, un bicchiere di latte per i bambini. Però hanno ancora le loro radici e non le vogliono lasciare. Sono 6,5 milioni gli sfollati interni siriani e il doppio quelli che si trovano in stato di necessità. È per venire incontro alle loro necessità vitali e al loro desiderio di ripartire dalla terra che li ha visti nascere che Ai.Bi. ha attivato, nelle zone di Aleppo e Idlib, una serie di interventi di prima e seconda emergenza. Grazie anche alla collaborazione di Unocha, Ai.Bi. distribuisce ceste alimentari a 12mila persone e garantisce alcuni dei diritti fondamentali alle famiglie e ai bambini della regione, come quelli al cibo e al gioco. Per continuare a portare avanti questa missione a favore di una popolazione di una terra martoriata, serve un piccolo contributo da parte di tutti. Un supporto continuativo come il sostegno a distanza per la campagna Io non voglio andare via, l’unico modo per dare un futuro a migliaia di bambini siriani.

 

Fonte: Avvenire