Una comunità educativa non sarà mai una casa famiglia

casa famigliaLe comunità educative nascono come servizio, le case famiglie come voglia di accoglienza. La differenza tra queste due realtà prende le mosse dai loro stessi principi ispiratori. Ne parlano i coniugi Cristina e Paolo Pellini, referenti di Amici dei Bambini per l’accoglienza familiare temporanea, a margine della seconda giornata della XXIII Settimana delle Famiglie di Ai.Bi., a Gabicce Mare.

“Sempre più spesso – esordisce Cristina – sento definire le case famiglie come ‘comunità di tipo familiare’. Non è proprio così. Si tratta di famiglie vere e proprie che decidono di accogliere. La differenza sostanziale con le comunità educative sta nel fatto che le case famiglia nascono come vera accoglienza, come forma di gratuità, e chi ne apre una non lo fa semplicemente per offrire un servizio, ma innanzitutto perché vuole prendersi cura di un bambino in situazioni di disagio”.

Il rapporto tra padre o madre affidataria e figlio “è un rapporto unico e specialissimo – sottolineano i coniugi Pellini –, perché basati su una vera forma di genitorialità. Dal punto di vista affettivo, ogni bambino accolto è considerato come un figlio proprio.

Anche le relazioni con le famiglie di origine di questi bambini assumono connotati diversi da quelli tipici del rapporto stabilito tra i genitori naturali e gli operatori delle comunità educative. “Nelle case famiglia – sottolineano i Pellini – la coppia affidataria si inserisce in un percorso di affiancamento a quella di origine: mai al di sopra, mai con la presunzione di insegnare qualcosa, mai con atteggiamento giudicante. Il principio fondante di questo rapporto è quello dell’accompagnamento: “A differenza di quanto avviene con gli educatori, i genitori delle case famiglia si mettono al fianco di altri genitori.

In sintesi, mentre nelle comunità i minori possono usufruire solo di un modello di riferimento, quello offerto dagli educatori, nelle case famiglia, a questo si aggiunge anche il modello offerto dai genitori.

Permangono ancora oggi dei limiti nella realtà delle case famiglia. Il caso di Cristina Sacchi è emblematico – ricordano Paolo e Cristina –: la mamma affidataria non viene riconosciuta legalmente come una vera mamma. Esiste ancora una confusione terminologica di fondo che non permette una chiara definizione delle caratteristiche proprie di questo tipo di realtà. Ciò che serve è innanzitutto il riconoscimento giuridico delle case famiglia e una legge nazionale che le regoli”.