Mamma affidataria accoglie 8 bambini nella casa famiglia di Ai.Bi. Ma per l’Inps e il Tribunale di Milano non ha diritto a congedo e indennità: costretta a restituire 21mila euro

case famigliaHa aperto la propria casa ai bambini in difficoltà, sia italiani che stranieri, li ha seguiti giorno dopo giorno, tutto come una vera mamma. Ma per l’Inps e per il Tribunale di Milano ha semplicemente gestito una comunità per minori: nonostante si sia fatta carico dell’affido di questi bambini, a lei – chissà perché? – non spettava la relativa indennità.

 

È la storia di Cristina Sacchi, mamma milanese e infermiera professionale di 48 anni, che dal 2011, insieme a suo marito Tommaso Greco, gestisce la casa famiglia “La tenda di Giobbe” di Amici dei Bambini, nell’hinterland del capoluogo lombardo.

 

Già genitori di cinque figli, 3 quasi trentenni e 2 gemelli di 8 anni, Cristina e Tommaso hanno accolto, in questi 3 anni, altri 8 minori provenienti da situazioni di disagio. Per ogni affido, come prevede la legge, Cristina ha chiesto il congedo di maternità all’Inps, ottenendo sempre la conseguente indennità. Tutto bene per un anno e mezzo. Poi a maggio del 2013 la doccia fredda. L’Inps, con un’unica comunicazione, rigetta tutte le domande chiedendo il rimborso delle somme erogate fino a quel momento: 21mila euro.

“Mi hanno trattata come una ladra – racconta oggi Cristina – e come una persona attaccata esclusivamente ai soldi. È stato spaventoso e, quando ci penso, mi viene ancora da piangere”.

 

Dopo lo sgomento iniziale, i genitori della casa famiglia di Ai.Bi. non si rassegnano e presentano ricorso. Le speranze, però, vengono subito deluse, a marzo 2014, da una comunicazione ufficiale del Comitato provinciale di Milano.

L’unica possibilità, a questo punto, è il ricorso alla giustizia ordinaria. Ma anche la sentenza del giudice del lavoro, pronunciata il 15 luglio, è sfavorevole alla coppia. Il magistrato del Tribunale di Milano, Giorgio Mariani, rigetta infatti il ricorso, motivando questa sua decisione con il fatto che “l’affido era stato concesso ad un ente morale (Ai.Bi., ndr) e non a una persona fisica”. Secondo la sentenza, Cristina “era solo colei che gestiva la comunità familiare” e quindi non aveva alcun diritto al congedo.

Sia per l’Inps che per il giudice, quindi, il ruolo di Cristina era paragonabile più a quello di un’educatrice che a quello di una mamma. Peccato però che le educatrici vengono stipendiate, mentre Cristina e Tommaso hanno fatto tutto sempre gratuitamente.

 

“Con l’ultimo arrivato – racconta la donna –, un piccolino senegalese di un anno con tanti problemi di salute, sono stata due settimane in ospedale proprio come fa una mamma. Questo le educatrici non lo fanno. Io mi sento e sono una mamma per i miei figli, sia quelli naturali che quelli affidati. Chi ci incontra per strada non riesce a distinguere gli uni e gli altri, perché io e mio marito diamo a tutti l’amore di mamma e papà. Un amore che a questi bambini ha davvero cambiato la vita e che nessuna sentenza riuscirà a fermare.

 

L’intenzione ora è quella di ricorrere in appello e, se necessario, anche in Cassazione. Lo annuncia il presidente di Ai.Bi. Marco Griffini che commenta così la vicenda: La legge sull’affido non è chiara su questo punto. Dice che i minori vanno affidati a una famiglia o a una comunità di tipo familiare, caratterizzata da organizzazione e da rapporti interpersonali analoghi a quelli di una famiglia. Ma queste condizioni si realizzano soltanto in presenza di una famiglia con una papà e una mamma, come quella di Cristina e Tommaso”. Per Griffini è decisivo l’aggettivo “familiare”: il Tribunale di Milano ne ha dato un’interpretazione “restrittiva”, mentre una più “estensiva” avrebbe portato il giudice, secondo il presidente di Ai.Bi., a ritenere Cristina genitore a tutto tondo e non solo “gestore” di una comunità per minori.

 

“Questa incresciosa vicenda – commenta infine Griffini – denuncia un vuoto normativo al quale è necessario rimediare con urgenza: la casa famiglia deve essere riconosciuta giuridicamente, distinguendola dalla comunità educativa e prevedendo una normativa adeguata alla sua unicità. Non è più accettabile che lo spirito di accoglienza e generosità di una famiglia venga frustrato da una legislazione miope, incapace di scorgere la differenza tra un genitore e un educatore”.

Nel frattempo, i coniugi Greco non si sono lasciati bloccare da questa disavventura e hanno continuato ad accogliere minori in difficoltà: oggi sono arrivati a 15.

 

Fonte: Avvenire