Quei bambini orfani due volte per colpa di una legge arretrata

Ogni estate diecimila bambini stranieri, quasi tutti senza genitori, vengono in Italia a passare le vacanze in delle famiglie grazie all’accoglienza temporanea. Ma una norma italiana rende impossibile l’affido e l’adozione ad alcune di queste.  Un argomento delicato che viene affrontato da Alessandro Gilioli sulle “pagine” de L’ Espresso on line, in un articolo dal titolo Quei bambini orfani due volte per colpa di una legge arretrata che riportiamo nella sua versione integrale.

Con la fine dell’estate, gli oltre 10 mila bambini stranieri che hanno passato gli ultimi tre mesi in Italia grazie all’istituto della “accoglienza temporanea” torneranno – o stanno già tornando – nei Paesi di origine. Alcuni (poco più dell’11 per cento) rientreranno nelle loro famiglie, ma molti altri no: circa un terzo (il 33,4 per cento) vive infatti in orfanotrofi e più del 55 per cento in strutture tipo casa-famiglia. La maggior parte di questi ragazzini (il 67 per cento dei quali ha meno di 12 anni) proviene dai paesi dell’ex Urss (Russia, Bielorussia e Ucraina in testa), nei cui istituti d’epoca sovietica trascorreranno l’inverno, rimanendo in contatto attraverso Internet – se e quando potranno – con la famiglia italiana che li ha ospitati.

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La realtà della accoglienza temporanea in Italia è molto variegata e non riconducibile a un unico modello: in molti casi, per i bambini è una semplice e graditissima vacanza al termine della quale non è drammatico il ritorno alla normalità nel paese d’origine, soprattutto se in questo vi è una rete di socialità e affettività, vuoi familiare vuoi d’altro tipo. In molti altri casi però – soprattutto per i minori che vivono negli orfanotrofi – si sviluppa invece un rapporto affettivo crescente con le persone che li accolgono in Italia, specie se questa ospitalità è reiterata nel tempo (non solo le vacanze estive, ma anche quelle di Natale, anno dopo anno) e se come spesso capita i “genitori” italiani vanno a loro volta a trovarli nei loro Paesi. Può accadere insomma (e di fatto accade) che le bambine e i bambini talvolta sentano vieppiù come la loro vera casa (cioè il luogo degli affetti, della sicurezza, del nido) non l’istituto di provenienza bensì le persone con cui trascorrono i mesi di accoglienza temporanea. In molti casi è possibile quindi ipotizzare e anzi auspicare il passaggio graduale da una frequentazione temporanea a una forma di affido a lungo termine o di adozione vera e propria, che permetterebbe al bambino di vivere e crescere con le persone a cui vuole più bene e da cui è amato.

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I paletti legali che regolano questo passaggio sono spesso fondati: non ci si può approcciare con superficialità al cambiamento dalla dimensione tipicamente ludica e spensierata della vacanza a quella che include tutti i doveri propri del rapporto genitore-figli, come già emerso da diversi studi a partire da quello redatto nel 2005 dalla Commissione per le adozioni internazionali. Tra gli aspetti normativi meno giustificabili e più urgentemente da superare, tuttavia, c’è quello paradossale che assegna alle coppie non sposate e ai single la possibilità di convivere insieme ai bambini in “accoglienza temporanea”, impedendo poi però loro l’idoneità all’adozione, che è riservata per legge alle famiglie “regolari” (cioè alle coppie sposate con determinati requisiti d’età). In altri termini, le due norme (quella sulla accoglienza temporanea, più avanzata, e quella sull’adozione, più arretrata) non sono coerenti tra loro, il che crea una discriminazione di possibilità tra i bambini degli orfanotrofi. Da un lato ci sono infatti quelli che vengono adottati attraverso il procedimento internazionale “tradizionale”, dall’altro quelli che invece – dopo aver trovato la loro “casa emotiva” accanto a coppie non sposate o a single – devono passare attraverso una porta assai più stretta: quella che vede i loro aspiranti genitori adottivi costretti a inoltrare un ricorso al tribunale facendo leva sulla legge per le “adozioni particolari”. Il che implica un procedimento lungo, costoso, assistito da un avvocato e dagli esiti incerti, in cui è obbligatorio dimostrare (tramite fotografie, lettere, biglietti aerei, testimonianze di terzi etc) il «preesistente rapporto stabile e duraturo maturato nell’ambito di un prolungato periodo di affidamento».

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La discriminazione in questione non sembra essere nel “superiore interesse del minore”, quel principio a cui si ispira tutta la legislazione italiana in materia di adozione, mediazione familiare, divorzio etc. E finisce per imporre lunghi anni di attesa e di incertezza ai bambini anche nei casi più eclatanti e urgenti: ad esempio, quando uno di loro vive in un orfanotrofio senza adeguata alimentazione, senza adeguate cure mediche, senza alcuna forma di affettività, senza alcun contatto con la famiglia d’origine – e magari anche vittima di bullismo o violenze; il tutto mentre esiste un legame affettivo solido e profondo con una coppia non sposata o con una persona single che lo ama da anni. Eppure anche in casi come questo il comune desiderio di unirsi del minore e della famiglia d’accoglienza viene negato, ostacolato o posposto per anni.

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Non mancano, in Italia, le proposte di legge che mirano a superare questa contraddizione e a far vincere il buon senso. E anche in alcuni settori del centrodestra la sensibilità verso la questione è molto cambiata. Insomma, le condizioni per un intervento politico ci sarebbero, anche prima della fine della legislatura. Che coinciderà con l’inizio di un’altra estate e con l’arrivo in Italia di migliaia di bambine e bambini che lasceranno i loro orfanotrofi sperando di non rivederli mai più.