Senegal: le daara, “dimore”, in realtà ghetti per bambini abbandonati dai genitori

daara_SenegalNessuno sa quanti siano le bambine e i bambini che, in Senegal, vengono affidati dai genitori, che non possono badare a loro, nelle tradizionali scuole coraniche, denominate daara (in arabo: dimora, casa), ma le strade di Dakar pullulano di talibé, termine coniato per definire questi piccoli che vivono nelle daara e si stima che il 30-40% di loro siano bambine che vengono abbandonate e fatte lavorare nelle daara. Mentre le bambine sono mandate nelle daara nei pressi delle loro famiglie, i bambini vengono spediti anche molto lontano dai genitori.

 Queste “case” sono gestite da un marabout, o maestro coranico, dove i bambini passano anni a recitare e a memorizzare il Corano; per sopravvivere elemosinano per strada. Non imparano il francese, la lingua officiale del Paese, né sanno cosa sia la matematica.

 Ma alcuni bambini riescono ad avere un’istruzione di qualità e ce la fanno, A.D., per esempio, ha 55 anni e è portavoce dei diritti dei bambini: a 5 anni i genitori lo lasciarono in una daara a nord del capoluogo del Senegal, St. Louis, dove ha vissuto per 15 anni elemosinando per strada.

 “Eravamo 120 bambini nella daara – racconta Ali – il nostro marabout, mio nonno, era un rigido osservante e maestro del Corano, leggeva le preghiere nella moschea di St. Louis.

Noi bambini vivevamo in baracche con tetto di lamiera ondulata tenuta insieme da legna e stracci; durante la stagione delle piogge vi pioveva a dirotto, avevamo sempre freddo. Dovevamo svegliarci alla 4 per studiare il Corano fino alla 8, poi andavamo di strada in strada per elemosinare la colazione, ritornavamo alla daara per recitare il Corano fino a mezzogiorno; poi ancora in strada per recuperare qualcosa da mangiare fino alle 3 del pomeriggio; di nuovo alla daara per studiare per qualche ora. In strada fino alle 10 di sera alla ricerca di un po’ di cibo per arrangiare una misera cena. Nella daara prima di addormentarci dovevamo recitare le preghiere e se non le avevamo imparate perfettamente eravamo costretti a stare alzati fino all’1-2 di notte per studiare. Se saltavamo qualche lezione ci portavano al mare a lavarci con l’acqua salata e al ritorno il marabout ci frustava senza sosta con una cinghia fatta di strisce di copertoni, ricordo ancora ora che avevo il corpo coperto di ferite, stavo male, ero senza forza e non potevo fare nulla perché i miei genitori mi avevano abbandonato e nessuno si prendeva cura di me.

Eravamo vestiti di stracci sporchi, il marabout con ci comprava nulla con cui coprirci e dovevano ricorrere all’aiuto delle famiglie locali che a volte anche ci nutrivano. Ogni sera mi addormentavo non sapendo cosa o se mai avrei mangiato il giorno dopo: senza cibo non avevo le forze per recitare le preghiere e per evitare le punizioni.

Il nostro marabout viveva in una grande casa aveva molte baracche che affittava agli stranieri e alle persone che lavoravano a St. Louis. Inoltre aveva un’entrata extra da quello che guadagnavamo in strada con cui comprava cibo per sé.

Ma c’era un figlio di mio nonno, il marabout, che era insegnante e che decise di portarmi a scuola quando avevo sette anni, capii che avevo l’occasione per cambiare la mia vita e feci tutti gli sforzi possibili: alle 6 studiavo il Corano, poi andavo alla scuola di St. Louis, tornavo alle cinque e mi dedicavo al Corano. Vissi nella daara per 15 anni senza vedere i miei genitori.

Per i miei figli voglio che studino nelle scuole riconosciute e che imparino anche il Corano, ma a condizioni accettabili. Mai ho mandato i miei figli in una daara: è per me ancora una ferita aperta.

Quando vedo i talibé per le strade di Dakar provo dolore per loro e rabbia verso quei genitori. Ma, dall’altra parte, provo conforto perché lavoro in Plan che si fa portavoce dei diritti dei bambini e delle bambine, della loro istruzione, sono fiducioso che possiamo aiutare il maggior numero di bambini possibile”. […]

 

(Fonte: Prima Press)