Adozione internazionale. Perché è ferita, ma può e deve guarire

Lo spiegano con un editoriale su Avvenire Luciano Moia e Antonella Mariani

L’adozione internazionale è ferita. Ma non può morire. Anzi, può e deve guarire. A dirlo sono Luciano Moia e Antonella Mariani, in un bell’editoriale scritto a quattro mani su Avvenire. Sulla crisi dell’adozione internazionale pesano “scelte politiche diverse. Da una parte il sovranismo che contagia gran parte dell’Est Europa, dall’altra la decisione di numerosi Paesi di negare l’espatrio ai bambini sani e di concederlo solo a quelli più problematici. Ragazzini spesso già grandi, oltre i 12 anni, che dopo una lunga permanenza negli istituti presentano situazioni esistenziali e condizioni psicologiche tutt’altro che agevoli da affrontare per una famiglia pur di buona volontà. Di fronte a queste difficoltà oggettive non c’è da stupirsi che il numero delle adozioni internazionali abbia fatto registrare il dato più basso dell’ultimo ventennio, solo 969 nel 2019, anche se i bambini arrivati concretamente in Italia rimangono oltre 1.200. Pesano poi altri fattori: dal crescente individualismo al più generale indebolimento della famiglia”.

E così, se “è già difficile, e sempre meno frequente, decidere di mettere al mondo un figlio, figurarsi che tipo di scoglio può rappresentare una strada come quella dell’adozione all’estero: lunga, economicamente costosa e tuttora impervia dal punto di vista burocratico”.

Già, ma allora cos’ha di speciale l’adozione internazionale? E perché merita di essere salvata? Perché l’adozione internazionale è “l’incontro non con un bambino qualsiasi, ma con un essere umano che ha già subito la più crudele delle ingiustizie, l’abbandono, e aspetta una mamma e un papà che lo restituisca al mondo. È il volere/dovere di riparare le sue ferite, pensare prima a lui che a sé stessi nel farlo diventare finalmente figlio attraverso un abbraccio senza condizioni. È mettere il suo diritto alla felicità davanti a tutto. A rischio di scivolare nella retorica, adottare un bambino di origine straniera è – non solo idealmente – un piegarsi sui mali del mondo e accollarsene una minuscola porzione. Con l’estinguersi dell’adozione internazionale, il rischio è che questo sguardo di accoglienza totale del bambino ferito si appanni, persino si disperda”.

Ma allora come salvarla? “Gli oltre 150 milioni di bambini orfani nel mondo (dati Unicef 2015) – continuano gli autori dell’articolo – rimangono una evidenza che interroga la nostra umanità, oltre che la nostra coerenza cristiana. Per schiudere questi nuovi percorsi sarebbe necessaria una politica capace di allargare lo sguardo, coraggiosa nel tentare soluzioni inedite, disponibile a offrire alle famiglie più generose – che non mancherebbero – l’opportunità di soluzioni inedite e concrete. Con norme più agevoli e sostegni economici adeguati. Ma bisogna fare presto. Intervenire e rinnovare con coraggio. Altrimenti il rischio che la cultura dell’adozione internazionale finisca per spegnersi, azzerando una delle esperienze più nobili e più dense di giustizia e di umanità avviate nel secondo dopoguerra, è terribilmente reale. Noi continueremo a batterci, con le risorse della buona informazione, perché questa bellezza non tramonti”.