“Ciao, mi chiamavo Raghad. Avevo 11 anni. Ora sono in fondo al mare. Avete visto il mio zainetto?”

raghadUn dialogo in fondo al mare immaginario tra quattro giovani ragazzi che sono morti mentre cercavano di venire in Italia basato sulle testimonianze raccolte sulle pagine del Corriere della Sera e dedicato a Maria Grazia Cutuli, la giornalista del Corriere uccisa 15 anni fa in Afghanistan. Sono solo quatto tra le migliaia di persone che hanno trovato la morte nel Mediterraneo negli ultimi anni, e di cui il Corriere nei suoi articoli ha cercato di tracciare la storia. Riportiamo la versione integrale del “dialogo” pubblicato il 23 novembre sul sito del Corriere della Sera a firma di Michele Farina.

Ciao, io mi chiamavo Raghad. Avevo 11 anni e stavo in Siria. Ad Aleppo. Ho perso il mio zainetto. L’avete forse visto?
Ciao Raghad, io ero Amin. Ho vissuto per 14 anni in Egitto e non ho fatto in tempo a vedere altri luoghi. Mi dispiace, ma il tuo zainetto proprio non l’ho visto. Sai, qui sul fondo la visibilità non è granché…
Parla per te, Amin. Io non ho mai goduto di tanta visibilità come da quando sono qui sotto. Sapete che dopo il mio naufragio sono finita per un giorno sui giornali di tutto il mondo? Fatim Jawara era il mio nome: facevo il portiere nella nazionale di calcio femminile del Gambia. Scusa se te lo chiedo Raghad, ma cos’avevi nello zainetto di così importante?

E’ vero Raghad, che portavi? Io per esempio lasciando l’Egitto non mi ero portato niente. Solo i vestiti che avevo indosso. Perché sai, se hai il bagaglio, poi gli scafisti te lo prendono. Fammi indovinare cos’avevi nel tuo: un sacchetto di datteri? Una bambola?

Noooooo Amin, le fiale. Le fiale d’insulina. Ero malata. Una brutta forma di diabete. Quella notte sulla spiaggia egiziana, prima di salire sul barcone stipato di gente, mio papà aveva messo nello zainetto la riserva delle mie medicine per il viaggio. Mio papà è un grande farmacista di Aleppo. Quando sono morta anche lui – raccontando la mia storia – è diventato quasi famoso. Certo, un po’ meno famoso di te, Fatim…

E brava Raghad, mi prendi anche in giro? Certo voi siriani siete migranti importanti: tutti sanno della vostra guerra, del vostro presidente Assad, dell’assedio di Aleppo. Invece del Gambia non parla nessuno. Il più piccolo Paese dell’Africa. Piccolo e nella morsa di un dittatore folle e immacolato, che si fa ricevere vestito di bianco alla Casa Bianca…

Fatim, non essere gelosa di Raghad. Nella guerra in Siria sono morte oltre 250 mila persone. E poi voi del Gambia non siete i soli a essere – diciamo così – trascurati. Anche noi egiziani passiamo per quelli che non hanno motivo di attraversare il mare. Anche noi abbiamo un generale che ci comanda, uno che gode di appoggi da Washinton all’Arabia Saudita passando per l’Europa. Così come c’era stato un generale al comando, un generale sostenuto dal mondo intero, prima che io nascessi. Certo non c’era la guerra al mio villaggio, Al Sharqiya. La guerra come in Siria no, quella no. Ma c’era la carestia. E dai negozi era scomparso persino lo zucchero. E mio padre, operato tre volte al cuore, non poteva più lavorare. E mio fratello era soldato al nord, con una misera paga. E allora abbiamo deciso. Io e mia madre. Mamma, vado. Mi darò da fare, vi manderò un po’ di soldi. Vai figliolo, che Dio ti benedica, mi ha detto lei stringendomi tra le braccia. Ecco, è andata così. Probabilmente sono salpato dalla stessa spiaggia da cui sei partita tu Raghad…
Mi sa di sì. Anche tu dovevi arrivare in Sicilia? Sulla nostra barca erano ammassate 320 persone. Tra cui io, mio padre e le mie cinque sorelle. Nella calca della partenza, con gli spazi ridotti al minimo, uno scafista ha preso lo zainetto con le miei medicine e l’ha gettato in acqua. A quel punto cosa potevamo fare? Eravamo già dentro, come sardine in scatola. Speravamo in un viaggio breve. Invece è durato troppo. Cinque giorni. Cinque giorni senza insulina in mezzo al mare, un tempo lunghissimo…

Nel mare è vero che il tempo si allunga, come il formaggio della pizza. Lo so perché noi egiziani siamo esperti nel fare la pizza. Fossi arrivato in Italia, sarei diventato anch’io pizzaiolo come tanti miei connazionali. E dire che ce l’avevo quasi fatta. Quando la barca si è capovolta, ci siamo trovati in sette, in acqua, aggrappati a un solo salvagente. Una ciambella per quattordici mani. Avessi avuto le tue mani, Fatim. I tuoi guantoni. E’ vero che voi portieri avete mani d’acciaio?
Già, così dicono. Ma sono servite a qualcosa le mie lunghe mani d’acciaio? Avrei preferito avere due pinne. E una coda avvelenata da scorpione, per pungere l’uomo che nel campo di raccolta in Libia aveva cercato di prendermi con la forza. Non per niente giocavo nei Red Scorpions, a Serekunda. Ero brava ma non guadagnavo un soldo. Avevo 19 anni, l’età media degli africani. Volevo arrivare in Germania, o in Svezia. Là chi gioca bene a calcio guadagna bene. Per questo diversi giocatori del Gambia hanno respirato la polvere del deserto come me, attraversando il Sahara fino al caos della Libia. Quando finalmente ho visto il mare e sono salita su quella barca, nonostante la calca, mi sono sentita leggera, libera. Era quasi fatta. Il mare è pulizia, non ti soffia addosso la polvere della tua povertà, non offre nascondigli a chi ti vuole tendere un agguato. Solo onde. Uno scivolo di onde. Balzando su quel barcone mezzo marcio non ho pensato al pericolo. Anzi. Ho avuto la stessa sensazione provata nel mio massimo momento di gloria, allo stadio della capitale Banjul, quando ho parato il rigore alla Scozia con un tuffo fantastico…

Il tuffo da un barcone che affonda con 500 persone sopra è un’altra cosa. Anche se hai la fortuna di tuffarti vicino a un salvagente. Eravamo a poche miglia da Malta. In sette attaccati a quella ciambella, una mano ciascuno. Un’ora, due, tre. L’acqua era fredda. Così fredda da rimpiangere il calore asfissiante della stiva. Ad uno ad uno, come i petali dei fiori che disegnavo da piccolino, in quattro hanno lasciato la nostra corolla galleggiante. Siamo rimasti in due, io e un ragazzo palestinese di nome Ahmad, molto più grande di me. Era lui che mi faceva parlare, per tenermi sveglio, per tenermi vivo. “Amin, dimmi com’è il tuo villaggio. Amin, cosa farai quando arriveremo in Italia?”. Gli ho raccontato del mio paese, dei miei sogni, di mio padre con il cuore malato. Sono contento perché abbiamo fatto in tempo a diventare amici, prima che anch’io mollassi la presa e il mio petalo scivolasse nella corrente. Adesso lo so, perché qui sul fondo si depositano tutte le verità del mondo, che Ahmad ce l’ha fatta. Dopo 30 ore, è stato recuperato da una nave di salvataggio. Ed è bello che abbia parlato di me, quando è stato portato in Sicilia. Ogni volta che mangerà una pizza, ci scommetto, mi penserà.

Che bella storia Amin, si può dire che nel naufragio tu abbia trovato un fratello maggiore. Scusate se non mi sono ancora presentato, vi ho ascoltato tutto il tempo senza avere il coraggio di intervenire. Mi chiamavo Abraham, avevo 23 anni. Ero partito dall’Eritrea per raggiungere mio fratello Adal, giunto in Italia prima di me. Siamo affondati in centinaia, al largo di Lampedusa. Prima avete parlato di bagagli: io avevo una bibbia in tasca, e basta. Venivamo tutti dall’Eritrea. Anche nel mio Paese c’è una dittatura, e i giovani che scappano – in realtà – fanno tirare un sospiro di sollievo al regime. Perché se restassimo, ci ribelleremmo. E dalle notizie che ho raccolto qui da Radio Fondale, mi sembra che accada lo stesso in molte parti d’Africa. Per i governi, i migranti che partono verso l’Europa in cerca di asilo e di rifugio sono una scocciatura in meno…

Hai ragione, Abraham. Da noi in Gambia la gente parte e il dittatore festeggia. Anche per questo io porto dentro un vulcano di rabbia. Invece le vostre parole mi sembrano scivolare via placide, pacificate. Perché questa differenza? Sarà perché io sono appena arrivata sul fondo mentre voi ci siete già da un po’?

Non lo so Fatim. E’ vero che qui sul fondo si impara ad apprezzare la distanza delle cose rarefatte, la bellezza delle vite, lunghe o brevi che siano state. Poi ognuno ha la sua storia, la sua esperienza. E per me conta molto anche il momento del commiato, il modo in cui abbiamo lasciato la superficie di questo mondo. Pensa ad Amin, attaccato al suo fiore-salvagente. Non era solo. Aveva accanto il giovane Ahmad, e grazie a lui ha sentito per l’ultima volta il brivido del coraggio, non soltanto la paura ma anche l’orgoglio di un ragazzo che a 14 anni ha affrontato il destino da capofamiglia. Mi dispiace, Fatim, se penso che l’ultimo tuffo da portiere tu l’abbia fatto nell’acqua, da sola. Io sono stata più fortunata: prima di svanire nel coma della malattia, ho potuto guardare negli occhi le mie sorelle e mio padre. So quanto ora si sentano in colpa, per non avermi salvato, per essere arrivati in Germania senza di me. Immagino l’istante in cui mi hanno affidata al mare, e sento come una vampata, una vampata magari inutile e tardiva, ma vitale. Per questo vorrei ritrovare il mio zainetto dell’insulina, lo zainetto che preparò mio padre prima della partenza. Mi aiuterebbe a non dimenticare, non dimenticare quello che ho amato nella vita, e che avrei voluto ancora amare.