Dona agli altri il bene che hai ricevuto, senza pretendere di essere ringraziato

gesù manda gli apostoliIn occasione della V Domenica del Tempo Ordinario, la riflessione del teologo don Maurizio Chiodi prende spunto dai brani del libro del profeta Isaia (Is 58,7-10), della prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (1Cor 2,1-5) e del Vangelo secondo Matteo (Mt 5,13-16).

 

Subito dopo la bella e felice Parola delle Beatitudini, il Vangelo di oggi si apre con due piccole parabole che Gesù rivolge ai suoi discepoli: «voi siete il sale della terra…», «voi siete la luce del mondo …»

Sale e luce, sebbene in modi molto diversi, sono degli elementi molto importanti della nostra vita quotidiana.

Soffermiamoci per un momento su ciascuna di queste due piccole parabole, per comprendere l’insegnamento di Gesù.

Quali sono le caratteristiche fondamentali del sale?

Gesù stesso indica la prima e la più importante: il sale dà sapore alle cose, al cibo.

La parola ‘sapore’ è legata strettamente alla sapienza. In effetti la sapienza, o saggezza, è anzitutto la virtù, la capacità abituale di sapere riconoscere il sapore delle cose e delle esperienze della vita: quelle amare e quelle dolci, quelle tristi e quelle liete.

È la virtù di sapere apprezzare le cose belle, desiderandole ed essendone grati. Quanto è importante nella vita sapere distinguere e discernere tutto ciò che è grazia e dono, tutto ciò che non è scontato, ovvio!

Per esempio, non è scontato avere il dono della salute, anche se magari abbiamo mille altre difficoltà.

La sapienza è la virtù che ci fa apprezzare questo dono. Non è ‘dovuto’ camminare, potersi alzare e tante altre cose elementari della vita. E invece chi di noi sa apprezzare queste cose? Chi di noi quando si alza la mattina dice: “Signore, ti ringrazio, perché anche oggi posso fare questo e quest’altro”.

Questa è la sapienza: fare memoria delle cose belle della vita. È la capacità di apprezzare i doni e le grazie.

Nella vita però ci sono anche molte amarezze, molte esperienze che non vorremmo che ci capitassero. Situazioni, persone, eventi difficili, che ci mandano in crisi. Ecco, è sapienza anche saper dare un nome a queste difficoltà della vita.

È sapienza non fare di ogni erba un fascio, saper distinguere.

È sapienza imparare ad evitare quello che possiamo evitare e ci fa del male.

È anche sapienza imparare da ciò che non possiamo evitare, lasciarci istruire da un evento, una situazione, un incontro, per domandarci come possiamo rispondere, con la nostra vita, a questa cosa che ci fa male, ci fa soffrire.

Paolo, scrivendo ai Corinzi, nella seconda lettura, dice però che lui non si è presentato a loro «con l’eccellenza della parola o della sapienza».

E aggiunge: «La mia parola e la mia predicazione non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza». In altre parole Paolo dice di non aver cercato di fare discorsi che strappassero consenso, applausi, facile successo.

Qui Paolo non vuole ‘disprezzare’ la sapienza umana, ma ci spinge a chiederci: che cos’è la sapienza vera? Quali sono le cose che davvero contano nella vita?

Che cosa merita di essere davvero apprezzato? Siamo così sicuri che ciò che conta davvero è il successo, la convenienza, il denaro, gli onori?

Chi pensa questo fa diventare questa ricerca spasmodica il fulcro della sua vita e, paradossalmente, si trova infelice, al di là delle apparenze.

Il ‘successo’, l’apprezzamento degli altri, non può essere l’obiettivo, ma piuttosto è il frutto, se arriva e quando arriva. Capiamo bene che la ricerca del successo può diventare una pericolosissima trappola della vita.

Paolo dice: «Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso».

Ecco, a uno sguardo superficiale, la croce di Cristo è il fallimento radicale della vita di Gesù. È il fallimento radicale di Dio. Un Dio crocefisso, sembra una contraddizione!

Eppure, lì, sulla croce, si manifesta la ‘potenza’ di Dio, la sapienza di Dio.

Sì, perché la croce è l’atto di ‘amore’ con cui Gesù ha donato se stesso a coloro che lo rifiutavano, per perdonarli, perché il loro rifiuto non diventasse la loro condanna.

Nella sapienza della croce, Gesù ci chiede di convertirci a questo amore sorprendente!

Per apprezzare questo dono, è necessaria la fede, è necessaria la fiducia in lui, più che in noi stessi e nei nostri metri di giudizio, troppo fermi all’apparenza e alla superficie.

La fede nel dono di Dio, che ha il suo culmine nella croce del Risorto, ci permette di saper apprezzare la grazia di tante cose della vita, anche quelle più nascoste, quelle che non vediamo se i nostri sguardi sono superficiali: il grazie a chi ci ha preparato da mangiare o a chi sta svolgendo bene e con impegno il suo lavoro. Piccole cose, che danno gusto e sapore alla vita!

Altrimenti non solo la nostra vita diventa insipida a noi stessi, ma anche noi diventiamo insipidi per gli altri.

Così Gesù ci mette in guardia: il sale senza sapore, il cristiano senza sapienza, «a null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dalla gente».

Poi c’è l’altra piccola parabola della luce: la lampada, che va messa «sul candelabro» e non invece «sotto il moggio», un recipiente nel quale si raccoglieva e si misurava il grano.

Ugualmente, Gesù dice che «una città che sta sopra un monte» «non può restare nascosta».

La luce, quando è accesa, brilla, si diffonde, non può non essere vista e illuminare. La luce è ‘contagiosa’.

Così Gesù dice: «Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli».

Le opere buone sono «la vostra luce», dice Gesù.

Ma, attenzione, le opere sono buone non quando noi facciamo qualcosa, che ci pare bene, perché gli altri lo vedano e lo apprezzino. Così, diventeremmo dei ‘mendicanti’ dell’apprezzamento degli altri. Cadremmo quindi nella ricerca ‘disperata’ dell’approvazione e dell’applauso altrui.

Questo fa l’esibizionista!

Eppure Gesù non ci dice di cercare il disprezzo degli altri, come se noi godessimo a essere non riconosciuti. Nient’affatto!

Potremmo dire così: “tu fa’ il bene, dona agli altri il bene che hai ricevuto, senza cercare e pretendere a tutti i costi che sia lodato, apprezzato e riconosciuto. Sarai felice se gli altri apprezzeranno il bene, le opere buone. Sarai felice se in queste opere sapranno riconoscere il bene che viene sempre da Dio.

Allora renderanno gloria non a te, ma a lui. Tu stesso, se fai il bene, lo fai perché altri lo hanno donato a te”.

La prima lettura, dal profeta Isaia, indica una serie di azioni luminose, opere buone, nelle quali noi diventiamo luce, una luce accesa alla luce di Dio.

Sono le opere dell’ospitalità, dell’accoglienza verso il povero, il bisognoso, chi ha meno di noi, l’emarginato, «senza trascurare i tuoi parenti».

A noi è chiesto di riconoscere le nuove povertà di oggi, e in modo sapiente, diventare ospitali e accoglienti. È impossibile questo senza la capacità di ascoltare, di accogliere, di fare spazio all’altro.

Isaia dice ancora, in modo molto efficace, che non ha nemmeno bisogno di commento: «se toglierai di mezzo a te l’oppressione, il puntare il dito e il parlare empio, se aprirai il tuo cuore all’affamato, se sazierai l’afflitto di cuore, allora brillerà fra le tenebre la tua luce».

Questa è la grazia che dobbiamo invocare dal Signore: di essere per le persone che incontriamo, come una piccola luce di speranza, di amore, di ospitalità.

Allora la nostra luce sarà luce della sua Luce!