Gesù ci mette in guardia dall’ingordigia: con la bocca troppo piena non saremmo più capaci di accogliere la Parola di Dio

riccoepuloneIn occasione della XXVI Domenica del Tempo Ordinario, la riflessione del teologo don Maurizio Chiodi prende spunto dai brani del Libro del profeta Amos (Am 6,1a.4-7), della prima Lettera di san Paolo apostolo a Timotèo (1Tm 6,11-16) e del Vangelo secondo Luca (Lc 16,19-31).

 

Al centro di questa domenica c’è una Parola molto bella.

E al culmine di questa Parola c’è una parabola di Gesù, che è tipica del Vangelo di Luca.

Come sempre, ci è chiesto di ascoltare e di gustare nel profondo questa Parola, per lasciarci interrogare e interpellare da essa come da una luce che si accende nel cammino della vita.

Al centro di questa parabola c’è «un uomo ricco», senza nome, perché rappresenta una tentazione e un peccato molto frequente. È lui il personaggio principale e attorno a lui gira tutto il racconto.

Gesù dice che quest’uomo «indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti».

Due tratti che descrivono benissimo quest’uomo. Vestiti e cibo. Era molto attento a sé. Non pensava che a sé. Vestiva in modo raffinato, elegante, attraente, oggi diremmo ‘all’ultima moda’, con i capi più raffinati.

Oltre a ciò, tutti i santi giorni non solo mangiava, ma banchettava in modo esagerato, sontuoso. Non si toglieva nessuna soddisfazione. Era un uomo ingordo, forse all’apparenza gentile ed elegante, ma in realtà spaventosamente egoista e pieno di sé.

La parabola lo dice chiaramente, con un altro suo tratto: accanto alla tavola, imbandita di ogni bene, di cibo e bevande prelibate, c’era un uomo povero, «di nome Lazzaro».

Anzi, quest’uomo non poteva nemmeno stare lì accanto alla sua tavola. Stava fuori, non poteva entrare. Era un uomo forse malato, comunque «coperto di piaghe»; un uomo ‘disperato’, affamato, solo, senza l’aiuto di nessuno. Con gli occhi guardava quello che «cadeva dalla tavola del ricco», ma lui non poteva nemmeno toccare tutto quel ‘sovrappiù’.

All’uomo ricco non sarebbe costato nulla dargli qualcosa dei suoi averi. Non si sarebbe privato di nulla, dandogliene. Ma gli occhi di quell’uomo ricco erano ciechi. Incapaci di vedere.

Gesù nella parabola dice che perfino i cani, quasi con pietà, «venivano a leccare le sue piaghe». Come a dire: l’egoismo e la cecità di quest’uomo ricco superavano ogni nostra immaginazione.

Il profeta Amos, nella prima lettura, dà una descrizione molto forte ed efficace di certi ricchi del suo tempo: vivevano come degli «spensierati», si sentivano sicuri di sé. Mangiavano carne di agnello e di ottimo vitello, «distesi su letti d’avorio e sdraiati sui loro divani». Vivevano nel lusso ostentato, esagerato.

Bevevano vini prelibati, erano molto ‘allegri’. Si profumavano il capo «con gli unguenti più raffinati».

Ma, aggiunge il profeta, «della rovina di Giuseppe non si preoccupano». Come a dire: avevano la bocca così piena di cibo, che non desideravano più nemmeno la Parola di Dio.

Questo è il peccato più grave: la sazietà e l’ingordigia spengono nell’uomo il desiderio di ascoltare la Parola di Dio. Uccidono il desiderio di quell’Altro che, invece, è ciò di cui abbiamo davvero fame e sete.

Non facciamo fatica a capire che, la nostra società occidentale, al di là della crisi di questi dieci anni, sta vivendo un’opulenza e una ricchezza che, lentamente e inesorabilmente, stanno spegnendo il desiderio della Parola di Dio. Ci illudiamo – poveri noi! – di bastare a noi stessi.

Ma, dice il profeta, questi uomini buontemponi saranno i primi ad andare «in esilio» e le loro orge finiranno. Cadranno vittima della loro ingordigia e toccheranno con mano la vanità delle loro illusioni.

Tornando alla parabola del Vangelo, Gesù prosegue il racconto: «un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo». Una sorte analoga, anzi identica, toccò anche al ricco: «morì anche il ricco e fu sepolto.  Del povero non si dice che fu sepolto, perché non aveva certo il denaro per provvedere alla sua sepoltura dignitosa. Il ricco invece sì: fu sepolto con tutti gli onori.

Ma, subito dopo, appare un grande contrasto: colui che era stato deposto in un bel sepolcro, come cadavere, in realtà stava «negli inferi fra i tormenti». All’apparenza anche nella morte aveva goduto dei suoi privilegi. In realtà, adesso era lontano da Dio, tormentato da una sete incredibile.

Al tempo di Gesù i farisei descrivevano l’inferno proprio come lo descriviamo anche noi, con una certa vivacità: una fiamma che brucia.

Ma non lasciamoci ingannare da una superficiale descrizione: la fiamma è una metafora per dire un caldo e una sete indicibile.

L’inferno, la lontananza da Dio è proprio questa sete insopprimibile di un bene – il Sommo bene – di cui ci siamo noi stessi privati, con le nostre scelte.

L’inferno è la sete dell’amore rifiutato.

Un po’ come la fame e la sete di Abramo che vedeva la ricchezza della mensa dell’uomo ricco, ma non poteva saziarsene.

Non c’è dolore più grande del vedere un bene dal quale siamo esclusi.

La morte, è proprio questo «grande abisso»: è la fine della nostra libertà, la fine della nostra storia, nella quale noi decidiamo di noi stessi, del nostro rapporto agli ‘altri’ e a Dio, per sempre, in modo irreversibile.

Dobbiamo però leggere e ascoltare con attenzione le parole di Abramo: «Figlio, ricordati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti».

C’è il rischio di rovesciare il senso di queste parole, come purtroppo siamo tentati di fare: molti cristiani dicono, e pensano, che nell’al di là, chi è stato povero sulla terra sarà ricco e chi è stato ricco si troverà povero.

Da qui allora, la pseudo-consolazione che nella storia molti cristiani hanno inventato, come quando si dice a chi è povero: “accontentati di quello che hai, di là riceverai tutto quello che qui non hai potuto avere!”. E da qui, viceversa, siamo tentati di disprezzare i beni della terra, come se, automaticamente, chi ne gode qui, domani, nell’eternità di Dio, dovrà essere punito perché ha ricevuto qui i suoi beni!

Non è così! Dopo la morte, in realtà, dinanzi a Dio, ciascuno di noi vedrà con chiarezza, aprirà gli occhi, su quanto già sapeva.

I beni non sono un male, è evidente! Come nella parabola di Lazzaro, o nella storia degli ‘spensierati’ di Sion e di tanti di noi oggi, il male sta nell’egoismo, cieco dinanzi ai bisogni e alle necessità del fratello.

Non è un male il denaro o il possedere molti beni. È un male accumulare senza avere occhi e mani per chi soffre, accanto a noi. È un male l’ingordigia e l’orgoglio di chi pensa di salvarsi da solo.

L’altro, il volto dell’altro, è il ‘primo luogo’ dell’appello di Dio.

Nella parabola, nel dialogo tra l’uomo ricco, fra i tormenti, e il padre Abramo, in forma drammatica, ci sono poi due ulteriori passi che ci aiutano a comprendere come si rivela a noi la volontà di Dio, oltre al volto dell’altro.

Al ricco che chiede di mandare il povero Lazzaro ad ammonire i suoi cinque fratelli, Abramo risponde: «Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro».

Chi non ascolta il volto e la povertà dell’altro, non ascolta nemmeno la Parola di Dio! Non comprende come questa Parola dica che Dio agisce nella storia e ha cura di tutti gli uomini come un Padre!

Alla fine, l’uomo ricco dice ad Abramo: «se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno». Proprio come pensano molti uomini di oggi che hanno più paura dei loro morti che non fede in Dio!

E Abramo risponde – sono parole di Gesù, è chiaro! – annunciando in modo esplicito ma evidente, la risurrezione di Gesù stesso. È lì che Dio ci ha rivolto la sua parola di amore più eloquente e convincente. Nella Pasqua di Gesù c’è la chiamata più bella a rispondere con amore all’amore!

Ascoltiamo dunque la voce di Dio: nel povero, in ogni altro, nella Parola, nella Pasqua, per godere davvero i beni di Dio, nella fede e nella fraternità.