“I nostri figli sono rimasti in Congo. Ma nessuno in Italia si occupa di loro”

rdcRiportiamo di seguito il testo integrale dell’intervista rilasciata alla giornalista Chiara Rizzo di “Tempi” da una delle 150 coppie adottive che hanno i figli ancora bloccati in attesa nella Repubblica Democratica del Congo di un visto. “Il viaggio a maggio del ministro Boschi – dice la coppia – ha avuto come effetto solo clamore mediatico. Le istituzioni non ci dicono nulla”.

 

Era una mattina di settembre di cinque anni fa quando Sofia (il nome è di fantasia), 35 anni, e il marito, 40, uscirono di casa diretti al Tribunale dei minori di una grande città del Sud. Destinazione la cancelleria adozioni: quel giorno consegnarono la documentazione completa per avviare la pratica di adozione internazionale. «Sia io che mio marito abbiamo un contratto a tempo indeterminato, una nostra casa, una famiglia che ci sostiene» racconta a tempi.it Sofia. «Quel giorno, con il cuore che ci scoppiava dentro abbiamo chiesto l’adozione internazionale perché sognavamo di poter accogliere un figlio dall’Africa. In quel momento non potevamo sapere che poi tutto si sarebbe trasformato nell’incubo presente che viviamo noi e lui». Sofia e il marito sono una delle 150 coppie italiane che hanno una sentenza che le nomina legalmente genitori di un bambino orfano in Congo. Conoscono già il nome e il viso di loro figlio. Ma non possono ancora abbracciarlo, perché il bimbo è bloccato da 14 mesi dalle autorità della Repubblica Democratica del Congo, che non rilascia il visto d’uscita.

 

VIA CRUCIS BUROCRATICA. Da quel giorno di settembre, sono passati altri quattro anni prima che Sofia conoscesse il nome del suo bambino e la coppia ha prima dovuto superare l’iter comune a tutte le famiglie che decidano di adottare un figlio. Il primo anno è stato costellato dalla lunga trafila burocratica organizzata dal tribunale dei minori. Prima gli incontri gestiti dai servizi sociali («un corso che ci ha costretti ad assentarci spesso dal lavoro, mettendoci in difficoltà, e in cui siamo stati bombardati di storie di esperienze fallimentari o difficili. Sembrava volessero scoraggiarci»), poi i controlli in questura, infine un assurdo ping pong del fascicolo della coppia tra l’ufficio del magistrato, la camera di Consiglio, la cancelleria.
Finalmente, tredici mesi dopo, Sofia e il marito hanno stretto tra le mani il decreto di idoneità rilasciato dal tribunale e si sono rivolte ad uno degli enti autorizzati per le adozioni internazionali. Ad inizio del 2013, Sofia ha ricevuto una chiamata: «Mi chiedevano se accettavamo l’abbinamento con un bimbo di cinque anni, il cui nome inizia per K. Con mio marito abbiamo pianto, riso, saltato. Non dimenticherò mai l’emozione vissuta quando ho stretto per la prima volta la sua foto tra le mani. Continuavo ad osservarla, a guardare ogni particolare del suo viso, quasi ad accarezzarlo con gli occhi».

 

«VIVIAMO UN INCUBO». Poi il 25 settembre 2013, a quattro anni dall’inizio di questa vicenda, è arrivato il fulmine a ciel sereno, la notizia che il Congo avrebbe bloccato tutti i visti in uscita per i bambini adottati. «Io sono svenuta. Sapevamo solo che molto probabilmente questo blocco era causato dal fatto che negli Usa le coppie gay potevano adottare, anche se il Congo non lo permetteva. Il paradosso è che a pagare eravamo anche noi, che non c’entravamo nulla. Ma per un figlio si lotta sempre. Così abbiamo cercato, noi genitori nella stessa situazione, di tenerci in contatto, di inviare insieme fax, di telefonare tutti alla Farnesina, di fare pressione insomma. Senza alcun riscontro. Niente, nemmeno un “vaffa” o un “ci dispiace”. Semplicemente non esistiamo».
Il 28 maggio 2014, il ministro Elena Boschi, con un volo di stato, è andata a prendere i primi 31 bambini bloccati in Congo. «Poco prima era arrivato un tweet del premier Renzi: “Andiamo a riprendere i bambini”. Il cuore batteva all’impazzita, ma nessuno sapeva quali bambini, tant’è che sia io che mio marito speravamo ci fosse anche il nostro. Leggevamo i quotidiani, compulsavamo internet, in cerca di notizie, nella speranza febbrile che K. viaggiasse sul volo. Abbiamo chiamato la Farnesina e nessuno ci ha detto nulla. Solo poche ore prima dell’atterraggio ci ha chiamato l’ente, dicendoci che i nostri bambini non viaggiavano sul quell’aereo. Sono svenuta di nuovo. Si può immaginare quello che viviamo?».

 

«QUELLA RIDICOLA RISERVATEZZA». Prosegue Sofia: «Comunque non ci siamo arresi. Qualcuno di noi è andato alla Festa dell’Unità a Bologna per incontrare Renzi. Due mamme hanno urlato tra la folla: “Che fine faranno i nostri figli in Congo?”. Lui, sentendole, si è fatto spazio tra la folla e le ha raggiunte. Ha assicurato “Domani mattina chiamo Kabila, il presidente del Congo”. Non ne abbiamo saputo più niente. Sempre a quella Festa dell’Unità, altre mamme hanno avvicinato la Mogherini, fresca di nomina a Commissario per gli Affari esteri Ue: “Chiamate la Farnesina, ormai la situazione è quasi conclusa, vedrete che presto li riabbracciate”. Alla Farnesina non ci hanno risposto, e se rispondono dicono: “Non possiamo parlarvi perché è compito della Cai (la commissione per le adozioni internazionali, ndr) darvi informazioni”. Ma la Cai non ci incontra: il suo compito è anche mantenere relazioni internazionali per evitare problemi come questo. Ma la Cai con il Congo non ha rapporti. Perché non ci dà spiegazioni? Nessuno lo sa. Il ministro Boschi è andata a prendere i primi bambini, ma quel gesto non ha avuto molti effetti, se non un clamore mediatico. Il dipartimento di Stato americano tiene periodicamente aggiornate le coppie adottive nella nostra situazione. Da noi ci obiettano che serve riservatezza per il loro lavoro. Ma quale lavoro? La riservatezza può essere utile, ma diventa ridicola se opposta al diretto interessato: è come se un medico alla fine della visita non rivelasse la prognosi al malato per “riservatezza”. È assurdo. Stiamo vivendo un incubo e non è giusto».

 

«I BAMBINI STANNO MALE». Sofia aggiunge: «Intanto, sappiamo che anche i nostri bambini stanno soffrendo tantissimo. Ogni sera chiedono agli adulti se la polizia ha emesso il visto. Stanno vivendo un incubo anche loro. Gli enti che seguono le nostre adozioni ci hanno detto che i nostri bambini si addormentano stringendo le nostre foto, chiamano spesso i nostri nomi. La maggior parte di loro vive in un orfanotrofio, e i più grandicelli (circa 12 anni) soffrono anche di più, perché ovviamente la maggior parte delle attenzioni sono rivolte ai bimbi ancora più piccoli. Alcuni enti fortunatamente mandano ad alcuni di noi le foto e le relazioni degli assistenti sociali. Noi possiamo scrivere loro e cerchiamo di spiegare che non è colpa nostra. Ma abbiamo paura perché un bambino piccolo può capire limitatamente la burocrazia».