I profughi dimenticati della Valle del Giordano

tendopoli messina200“La mia vita è sprecata. Volevo diventare agronomo, ma ho dovuto lasciare la scuola quando ero in terza media. Ricominciare e impossibile, devo lavorare per aiutare la famiglia”. A parlare è Mohammad Khaled, 16 anni, uno dei circa 7mila rifugiati siriani, di cui la metà sono bambini, che vivono nel campo profughi di Shuneh, in Giordania, non lontano dal confine con Israele. Quelli di Shuneh sono gli sfollati più sfortunati, 1.200 famiglie che quotidianamente vivono una tragedia nella tragedia. Sfuggiti alla guerra civile, si trovano a vivere ammassati nelle tendopoli improvvisate lungo il fiume Giordano. Più che altro, si tratta di sopravvivere, perché qua gli aiuti umanitari non arrivano o sono scarsissimi. E i profughi per cavarsela devono lavorare 6 o 7 giorni alla settimana per 12 ore al giorno, fin da giovanissimi, per guadagnare 10 dinari, circa 14 dollari. Quasi tutti appartengono a famiglie contadine, arrivate sperando di trovare lavoro nelle tante aziende agricole della zona. Nel corso del tempo, sono diventati moltissimi e sono sorte cinque tendopoli spontanee lungo le strade della Valle del Giordano. Non hanno nessuna assistenza, non ci sono scuole e il cibo spesso scarseggia, nonostante gli aiuti alimentari delle Nazioni Unite. I profughi devono lavorare per pagare l’affitto del terreno, l’elettricità e l’acqua. “Se ci sentiamo male nel mezzo della notte potremmo morire prima che qualcuno arrivi qua per aiutarci”, racconta Abu Ahmad, un contadino fuggito con la moglie e i 5 figli, preoccupato anche del fatto che nessuno di questi ultimi ormai può più frequentare le scuole.

I profughi dimenticati di Shuneh sono una parte di quel milione e 200mila rifugiati siriani arrivati in Giordania dall’inizio del conflitto. La maggior parte di loro si è stabilita nei centri urbani, sopravvivendo grazie al sostegno delle Nazioni Unite e delle organizzazioni umanitarie. La maggior parte dei più piccoli però non ha la possibilità di andare a scuola e la loro scolarizzazione, oltre che all’impegno delle grandi organizzazioni, è affidata alle iniziative personali. Mohammad Marahleh è un insegnante giordano, che nel campo fa il maestro volontario. La sua aula è una tenda bianca con più di 70 ragazzini. “Sono qui perché mi sentivo male a vedere questi bambini sprecare il loro tempo. Eppure, ci sono tante famiglie che si rifiutano di far frequentare le mie lezioni ai figli e insistono sul fatto che vogliono una scuola vera”. “Invidio i ragazzi delle città, quelli normali – dice Ali Awad, 12 anni e già contadino – hanno Facebook, hanno i telefonini e possono giocare. Noi non abbiamo niente, a parte le montagne e la polvere”.

Fonte: la Repubblica