Il signore degli orfani: quale destino per i bambini abbandonati della Corea del Nord?

libri-pulitzer_650x447In parte racconto di un’innocenza perduta e del dramma dell’abbandono, in parte thriller e storia d’avventura, il Signore degli Orfani è una saga di oltre 500 pagine, scritta dall’americano Adam Johnson. Un classico “romanzone” per l’estate,  “un libro che si divora e ti divora”  come ha scritto il critico Gian Paolo Serino, e che ha guadagnato riconoscimenti in tutto il mondo: Premio Pulitzer per la narrativa 2013 e scrittore dell’anno per i milioni di lettori di Amazon Usa, pubblicato e tradotto contemporaneamente in 12 Paesi.

La storia comincia nell’orfanotrofio Lunghi Domani, nella Corea del Nord.  Pak Jun Do, il protagonista, è stato lasciato lì dalla madre, una cantante che è stata rapita e portata a Pyongyang per allettare i potenti della capitale. Pak Jun Do (da notare che in America si usa il nome di John Doe per indicare i “figli di nessuno”), però, non è orfano. Suo padre è il direttore dell’istituto e per questo cresce lì, insieme a tanti bambini abbandonati. In quanto figlio del capo, all’interno dell’orfanotrofio a lui toccano le incombenze più difficili: la divisione del cibo, l’assegnazione dei letti nelle stanze più riparate, le punizioni se qualcosa va storto.

La vita nel brefotrofio viene descritta in tutta la sua spaventosa crudeltà quotidiana: “Il Signore degli orfani gli aveva piegato le dita, gli aveva tolto il cibo dalla mano… Gli altri bambini del Lunghi Domani, morendo l’uno dopo l’altro, gli avevano rubato l’idea che era necessario voltare le spalle alla morte, che la morte doveva essere trattata semplicemente come un altro vicino di latrina, o come la figura irritante che fischia nel sonno nella branda sopra la tua.(…)

Forse soltanto sua madre gli aveva tolto qualcosa di più grande, quando l’aveva depositato al Lunghi Domani”.

La solitudine di questo bambino, il suo stato di abbandono ne fa facile preda della propaganda della dittatura. Plasmato per obbedire, entra nell’esercito e viene costretto alle prove di più atroce disumanità e disumanizzazione.

Ci sono pagine che fanno accapponare la pelle, nella discesa all’inferno di questo ragazzino lasciato a se stesso e diventato, come “umile cittadino della più grande nazione del mondo”, un rapitore professionista, costretto a destreggiarsi tra l’arbitraria violenza e le richieste sconcertanti da parte dei suoi superiori per sopravvivere.

E’ un romanzo, quindi un’opera di finzione, ma il suo autore ha fatto sette anni di ricerche approfondite prima di scriverlo ed è tra i pochissimi cittadini americani ad essere riuscito a introdursi nella Corea del Nord, con uno stratagemma: si è fatto passare per l’aiutante di un raccoglitore di mele.

Così la storia di Pak Jun Do, benché inventata, è intrisa di verità e nella sua epopea risuona  l’eco di tanti bambini abbandonati e sfruttati, soli e perciò caduti vittima di traffici illegali, degli eserciti, della prostituzione.

Che cosa salva Pak Jun Do? Senza rivelare il finale del libro e uno dei suoi tanti, sorprendenti colpi di scena, vi basti sapere che, ancora una volta, realtà e finzione sono vicinissime: l’amore è la svolta.

La capacità di aprire il cuore ad accogliere i bisogni di un’altra persona, fino a essere disposto a sacrificarsi per lei e per il suo bene, sarà il motore per cambiare vita e andare incontro al futuro.