In un mondo con sempre meno fede, possiamo ancora dire che Gesù è Signore e re dell’universo?

cristo-reIn occasione della festività di Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’Universo, la riflessione del teologo don Maurizio Chiodi prende spunto dai brani del secondo Libro di Samuele (2 Sam 5,1-3), della Lettera di san Paolo apostolo ai Colossèsi (Col 1,12-20) e del Vangelo secondo Luca (Lc 23, 35-43)

 

La solennità con cui si conclude il tempo dell’anno liturgico, dedicata a Gesù Cristo Re dell’universo, mi sorprende e colpisce per diversi motivi.

Ne ricordo qui solo due: il primo è che per noi, oggi, parlare di re, è senza dubbio fuori moda. In un tempo di repubblica e di democrazia parlamentare, qualsiasi richiamo a re, corti, principi, ecc., ci sembra qualcosa di nostalgico, di fuori tempo.

Ancor più, però, questa solennità liturgica sembra affermare e celebrare qualcosa che non è vero: come si fa a dire che Gesù è il re dell’universo?

In un mondo che sembra andare a rotoli, pieno di guerre, di violenza, di ingiustizia, pieno di dolore, di morte, un mondo in cui tutto – per dirla con un’immagine – tutto sembra andare ‘alla rovescia’, ci vuole un bel coraggio a dire che Gesù è re dell’universo!

Se poi pensiamo che in occidente, che un tempo è stato la ‘culla’ del cristianesimo, oggi la fede in Gesù si riduce, si contrae, e anche per molti ‘credenti’ sembra avere meno presa sulla loro vita, perché appare loro lontana, insomma la misura è colma: come possiamo ancora dire che Gesù è Signore e re dell’universo?

La Parola di Dio di questa solennità ci viene incontro così, sorprendendoci ancora una volta, con la forza della sua pro-vocazione.

Partiamo dal Vangelo.

Gesù, crocifisso, è appeso alla croce. Sono le ore della sua agonia, della sua lotta non solo contro la morte, ma anche contro la sensazione di essere abbandonato dal Padre.

È vero che la sua passione, nel vangelo di Luca, viene descritta con toni più di abbandono fiducioso che di dramma sconvolgente, però il passo che abbiamo letto contiene delle accuse molto forti nei confronti di Gesù.

Mentre il popolo stava lì, a ‘vedere’, silenzioso e quasi attonito, si sentono le grida di derisione dei capi: «Ha salvato altri! Salvi se stesso, se è lui il Cristo di Dio, l’eletto».

È un atto potente di accusa. È come una sentenza confermata, in modo sadico:

“si merita davvero di morire … se davvero fosse stato capace di salvare gli altri, ora potrebbe salvare anche se stesso”, dicono i capi.

In apparenza, questa gente pare avere proprio ragione: a partire dal fallimento finale, lì, appeso su quella croce, tutto il resto della vita di Gesù sembra messo in discussione. Tutto sembra smentito: “allora era tutto un trucco, un inganno, una menzogna”, dice la gente. “Era tutto un bluff”.

E così credono di aver ragione loro.

A ben guardare, però, oggi molti pensano anche il contrario: “se davvero è il salvatore, questo Gesù, perché non è in grado di salvare il mondo?”.

Sembra l’opposto di quello che dicono i capi, ma è la stessa logica, la stessa direzione: “che Dio è questo se non può salvare il mondo dal male, dalle ingiustizie, dal dolore, dalla morte?”.

Sulla croce, davanti a questa accusa terribile, Gesù tace. O meglio, parla, a suo modo e cioè con i gesti del corpo.

Rimane sulla croce. Non si ‘salva’, scendendo da essa! Ci salva, rimanendoci, su quella croce. Per amore.

Così lui è davvero «immagine del Dio invisibile», come dice il bell’inno liturgico (della prima chiesa), riportato da Paolo nella lettera ai Colossesi. Il crocifisso è l’immagine del Dio che non ha immagine, perché non si vede.

E questa immagine di Dio è davvero sorprendente, se non sconvolgente. L’immagine della croce sconvolge e mette in crisi tutte le immagini superficiali e idealistiche di Dio, le immagini con cui siamo noi a dare a Dio la nostra immagine, invece di accettare noi l’immagine che lui ha dato di sé.

Anche i soldati, nel racconto di Luca, deridono Gesù in un modo molto simile. Stavolta, loro, si accostano a lui più da vicino e si rivolgono direttamente a lui: «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso».

Ecco qui il titolo ‘regale’ di Gesù. Lo hanno scritto perfino sulla croce, in un atto di derisione perpetua, oseremmo dire ‘eterna’, fino a quando durerà questo nostro mondo: «Costui è il re dei Giudei».

Gesù è morto sotto questo sfottò, sotto un cartello che sintetizzava, con un gioco ironico, le sue parole, quelle che gli erano costate la condanna. “Noi diciamo – questo significa quella scritta – che lui dice, falsamente, di essere il re dei Giudei. Perciò lo accusiamo di essere menzogna”.

Ma l’ironia è che ciò che viene mostrato come menzogna, è realtà, è la verità.

«Re dei Giudei». Gesù è davvero il compimento della promessa fatta a Davide, di cui abbiamo ascoltato nella prima lettura.

È però un compimento sorprendente, inatteso.

Il brano dal secondo libro di Samuele dice che tutte le tribù di Israele vanno da Davide e lo incoronano come proprio re, perché il Signore lo ha eletto e scelto.

Davide viene unto – unto in greco si dice ’Cristo’ e in ebraico ‘Messia’! – dalle tribù di Israele perché è stato ‘unto’ dal Signore.

Sulla croce Gesù viene accusato, con pesante sarcasmo, di essere ‘Cristo’, unto, e re.

Arriviamo così alla terza accusa, forse la più sconvolgente, almeno per noi.

Gesù è appeso sulla croce in mezzo a due malfattori. Uno dei due «lo insultava», ripetendo le accuse dei capi e dei soldati. Questa accusa, però, in bocca a un malfattore, non può non colpirci amaramente.

Certo, da un criminale non ci aspettiamo sentimenti di umanità, ma da uno che sta morendo – forse – ci potremmo aspettare parole di comprensione, almeno verso un altro che sta facendo la stessa fine. Questo ‘uomo’ sembra ‘cattivo’ fino in fondo. Si unisce al coro dello spregio e del disprezzo.

Come è facile, anche per noi, tante volte, unirci al coro delle calunnie, quando siamo di fronte a una persona debole, che non si può difendere!

Eppure – è la cosa più sorprendente in questa scena – l’altro malfattore, appeso anche lui alla croce, ha il coraggio di rimproverare il suo socio di condanna a morte.

Le parole di questo criminale sono di rara bellezza.

Ammette con franchezza di essere condannato a una giusta pena: «perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni». Allora la pena di morte – come purtroppo ancora oggi in moltissimi paesi del mondo! – era una condanna contro reati molto gravi.

Questo ‘criminale’, sulla croce, dice di Gesù: «egli invece non ha fatto nulla di male». È un ribaltamento totale: è (sembra) un uomo cattivo che riconosce Gesù!

E, poi, rivolgendosi direttamente a Gesù, lo proclama re, e ha ragione lui stavolta, e nello stesso tempo si affida a lui.

È una parola di incredibile bellezza: «ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». E lo chiama per nome.

Gesù è riconosciuto re da un uomo che era tanto lontano da lui.

Questo ‘malfattore’ ci rappresenta tutti.

Non perché siamo tutti malfattori come lui, anche se ciascuno di noi è ‘malfattore’ a modo suo.

Questo uomo è per noi un modello: è modello di un uomo che si lascia salvare da Gesù riconoscendo in lui il proprio salvatore.

La risposta di Gesù è la più bella conferma alle parole di quest’uomo: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso»!