La ricchezza di appartenere a due culture: “Sono un perfetto italiano in un involucro da cambogiano”

cambogiaSono sospesi tra due culture, quella italiana in cui sono immersi e quella di nascita, cui costantemente rimandano i loro tratti somatici. Vivono una sorta di “identità duale” con la quale devono fare i conti perché dalla sua serena accettazione dipende una buona progettualità verso il futuro. A trovarsi in questo limbo sono i bambini e poi ragazzi adottati con l’adozione internazionale che per i primi anni della loro vita si trovano immersi in realtà, suoni, odori, cultura e abitudini alimentari totalmente differenti da quelli con cui avranno a che fare per il resto della loro vita.

E se non trovano un sereno equilibrio tra le due identità individuando quel filo rosso che lega il passato con il presente della loro esistenza, rischiano di non sentirsi appartenenti a nessuna delle due.  I bambini che arrivano in adozione hanno vissuto per un tempo più o meno lungo in una cultura completamente diversa: mediamente poco meno di sei anni, secondo i dati statistici forniti dalla Commissione per le adozioni internazionali. Poi tutto ad un tratto sono “catapultati” in una dimensione nuova, costretti a lasciare un ambiente spesso inadeguato ma a loro familiare e affidati a due adulti, i futuri genitori, del tutto estranei che parlano un’altra lingua, hanno gesti ed abitudini del tutto differenti.

Certo una volta qui imparano l’italiano ad una velocità sorprendente e modificano abitudini, i modi di comportarsi, di mangiare, di relazionarsi… imparano dunque a mimetizzarsi! Ma poi anche a distanza di anni gli amici, i compagni, la gente per strada continua a mandare messaggi contraddittori.
Come possono trovare una loro identità, sospesi tra due culture, quella italiana in cui sono ora immersi e quella di nascita, cui costantemente rimandano i loro tratti somatici? È davvero solo un involucro? «Sono cambogiano, anzi no, sono italiano – dice un ragazzo adottato -, come tanti figli adottati in adozione internazionale, ho tratti somatici molto differenti da quelli dei miei genitori. Ho tratti somatici differenti anche da quelli dei miei zii, dei nonni, dei cugini, dei miei compagni di scuola, dei miei amici e conoscenti. Sono un perfetto italiano in un involucro da cambogiano!». Le ricerche, condotte per lo più nel contesto statunitense, hanno evidenziato come la costruzione di una positiva identità etnica, ovvero di una consapevolezza e dell’orgoglio nell’appartenere ad un specifico gruppo etnico, possa portare ad un maggiore benessere psicologico e sociale. Nel contesto italiano la situazione appare forse un po’ più variegata: una recente ricerca condotta del Centro studi e ricerche sulla Famiglia ha evidenziato che sia coloro che riescono a coniugare questa duplice appartenenza, sia coloro che si assimilano alla cultura italiana, mettendo tra parentesi la cultura di origine, presentano buoni livelli di benessere psicologico e globalmente relazioni soddisfacenti. Ma una lettura più attenta dei dati ha messo chiaramente in luce che solo i ragazzi del primo gruppo, quelli che sono riusciti a costruire una “identità duale”, hanno un buon grado di progettualità verso il futuro e si sentono protagonisti della propria vita, forse perché sono stati in grado, non senza fatica, di trovare quel filo rosso che lega il passato con il presente della loro esistenza.

Anche per i genitori adottivi il compito non è dei più semplici: si trovano a doversi confrontare con un compito aggiuntivo specifico. Se è richiesto loro di trasmettere la cultura propria, quella del contesto in cui vivono, ovvero la cultura italiana, e si trovano a confrontarsi con la cultura del Paese in cui il figlio è nato, decidere se e cosa trasmettere e soprattutto che valore dare a ciò. Cosa possono fare i genitori per facilitare nel figlio la costruzione dell’identità etnica?
Il soggiorno all’estero quando i genitori si recano per incontrare il figlio, è di tutte l’occasione più favorevole per conoscere quel popolo e quella cultura e possono sfruttare tale periodo come opportunità per immergersi letteralmente nella cultura del Paese, apprendere usanze, assaggiare cibi, conoscere le tradizioni, i modi di fare, visitare luoghi, lasciarsi affascinare da quella gente per poi poter trasmettere tutto ciò al figlio.
In secondo luogo, possono imparare per tempo almeno i rudimenti della lingua madre del figlio: questo facilita la comunicazione tra genitori e nuovo arrivato, ma anche perché consente ai genitori di mettersi in una posizione veramente di ascolto profondo del figlio ed instaurare propriamente un dia-logo, nel senso etimologico del termine.  In sintesi, dunque, dare valore all’appartenenza etnica è un compito che riguarda sia i genitori sia i ragazzi e si dipana in modi e forme diverse in tutte le tappe della vita. Pertanto è necessario preparare adeguatamente i genitori e sostenerli in tutto il percorso adottivo perché trovino via via le modalità più funzionali affinché il figlio possa riconoscere e valorizzare la propria origine etnica e trovare una propria modalità per integrare questa duplice appartenenza.

Fonte (Avvenire)