Minori fuori famiglia, Cristina Riccardi: «In Italia gli istituti non hanno mai chiuso»

Secondo l’ultima ricerca dell’Istat risulta aumentato in Italia il numero dei minori ospitati nelle strutture di accoglienza: ne sono stati contati 22.584 nel 2009, contro i 16.414 del 2006. Si tratta di un 40% in più di under-18 separati dalla famiglia e stanziati nei presidi. Un aumento dovuto a un più grande numero di presidi sui quali è stata condotta l’ultima indagine, e dovuto altresì all’inclusione nelle statistiche dei centri socio-sanitari, oltre a quelli socio-assistenziali.

Il dato suscita però pareri controversi. Per comprenderne meglio l’obiettività e le implicazioni intervistiamo Cristina Riccardi, esperta di tematiche di affido e consigliere di Ai.Bi. Amici dei Bambini con delega all’affido familiare.

– Qual è stato il suo primo commento, in qualità di consigliere di Ai.Bi., una volta presa visione del dato?
I dati mettono sempre più in evidenza un diffuso disagio tra le famiglie, sia in relazione agli anziani che ai minori. Particolarmente significativo è il dato relativo ai minori presenti nelle strutture residenziali, di cui il 50% dei minori non presenta alcuna problematica specifica ma risulta allontanato dal nucleo familiare per problemi economici, incapacità educativa o problemi psico-fisici dei genitori.
Questi sono i minori che dovrebbero essere in affido familiare o ancor meglio nelle loro famiglie dato che la prima causa riportata di questi collocamenti sono i problemi economici. La legge dice che un minore non può essere allontanato solo per questo motivo, ma che va sostenuta la famiglia. Vero è che questo problema spesso si associa ad altri e allora l’affido familiare è lo strumento più corretto da utilizzare per sostenere il minore e la famiglia. Lo stesso vale per i minori disabili, non mancano le famiglie disponibili all’accoglienza.

– Come valutare questi dati?
Al solito non si riescono ad avere dei dati reali relativi ai minori fuori famiglia, anche in questo caso si parla di strutture residenziali socio-assistenziali e socio-sanitarie, quindi non sono dati che possano dare la fotografia esatta dello stato di fatto, tra questi minori sono compresi quelli non allontanati dalla famiglia ma per i quali la famiglia stessa ha chiesto il ricovero. Dal Ministero dei Lavoro e delle Politiche Sociali giunge notizia di una nuova indagine che dovrebbe iniziare, ma sarà comunque fatta a campione quindi ancora una volta ci troveremo davanti a un quadro ipotetico, non reale. Occorrono serie indagini quantitative, ma soprattutto qualitative: si parla di benessere dei bambini come obiettivo primo da raggiungere, ma vogliamo renderci conto che lo stare in comunità è assistenza, anche nei migliore dei casi, e non ha nulla a che vedere con l’accoglienza? Che gli affidi che durano per un tempo indeterminato non generano benessere?

– L’Istat ha allargato il numero e il genere di presidi presso cui l’ultima indagine è stata svolta (2009), comprendente anche i presidi socio-sanitari (l’indagine precedente, del 2006, teneva conto dei soli presidi socio-assistenziali). Come distinguere tra i due tipi di presidio?
Le comunità educative dove vengono accolti i minori allontanati dalla famiglia con decreto del Tribunale dei minori sono di tipo socio-assistenziale, le strutture residenziali socio-sanitarie sono quelle che accolgono, e curano, quanti hanno problemi di disabilità o di dipendenza.

– Se questo allargamento di strutture non consente di enfatizzare l’aumento, ritiene però che in Italia i centri residenziali siano rimasti in sostanza degli orfanotrofi?
Assolutamente sì, come spesso evidenziato la conversione da istituti a comunità educative non ha in alcun modo influito sullo stile dell’accoglienza: i ragazzi sono raccolti in piccoli gruppi non superiori a 12, ma il turn-over* degli educatori è impressionante; ancor più grave è la situazione ora che molti Comuni faticano a pagare le rette alle comunità (rette decisamente alte) per cui il numero di educatori assunti è ridotto all’osso, con rischio di burn-out** le cui conseguenze ricadono ancora sui ragazzi accolti.

– C’è rischio di riapertura degli orfanotrofi?
Non hanno mai chiuso. Come appena detto, la sostanza dell’accoglienza in comunità è la stessa degli istituti. Per l’affido familiare si può tranquillamente parlare di circolo vizioso: la cattiva gestione allontana le possibili famiglie affidatarie perché spaventate anche se umanamente attratte dalla proposta di accogliere un figlio in affido, mancando le famiglie il sistema affido non può decollare, se non decolla le famiglie non si avvicinano; inoltre la mancanza di risorse economiche non permette ai servizi sociali di intervenire all’insorgenza dei problemi nelle famiglie, ma solo quando la situazione è compromessa, quindi gli affidi sono per la maggior parte di lungo termine, saturando così la disponibilità all’accoglienza delle famiglie. Di questo passo si dovrà rialzare il numero massimo di minori accolti nelle comunità. Anche se, ripeto, non è solo una questione di numeri. Abbiamo il caso della Romania che dovrebbe insegnarci qualcosa: si è deciso di svuotare gli istituti a favore dell’affido familiare, senza un adeguato sistema di sostegno alle famiglie affidatarie e alle famiglie d’origine. Tutto questo ha provocato il collasso del sistema di affido per cui si assiste al ritorno in istituto di molti ragazzi… ancora più traumatizzati.

– Perché non dare in affido questi minori, mettendo in mano l’affido al privato sociale?
La strada da percorrere per rilanciare l’affido è sicuramente quella di un sempre maggior coinvolgimento e una sempre maggiore responsabilità dell’associazionismo e del privato sociale. Purtroppo non vedo ancora consapevolezza di questo tra politici e amministratori. Forse i servizi sociali, ed in particolare i servizi affido, sono quelli che a fronte dell’impossibilità di gestire nel miglior modo possibile l’affido di molti minori per mancanza di risorse e quindi continui tagli sul personale, stanno cercando spazi di collaborazione, perché in coscienza si rendono conto che la situazione è al collasso e che lavorare sull’emergenza non porta quasi mai al benessere del minore in carico. La strada purtroppo è lunga ma solo per motivi culturali; sono convinta però che sia l’unica risposta soprattutto nell’attuale contesto socio-economico: sempre più disagio familiare, sempre meno risorse investite nel sociale. Ci sono anche situazioni in Italia in cui questa collaborazione, per quanto sperimentale, sta portando risultati ottimi. Questo aprirà nuovi spazi di collaborazione e di possibile assunzione di responsabilità da parte della società civile nei confronti dei minori fuori famiglia, i nostri figli.

*turn-over: ricambio.

**burn-out: depressione motivazionale, con conseguenze sulla professionalità degli assistenti.