Soprattutto al giorno d’oggi, la vera ricchezza è solo in Dio

Nella XV Domenica del Tempo Ordinario la riflessione di Don Chiodi prende spunto dalla Prima Lettura Dal libro del profeta Amos Am 8,4-7, dalla Seconda Lettura Dalla prima lettera di san Paolo apostolo a Timòteo 1 Tm 2,1-8 e dal Vangelo Dal Vangelo secondo Luca Lc 16,1-13.

C’è un’espressione molto bella, nella seconda lettura, proprio al termine, che è come una luce per la nostra preghiera e in particolare per ogni volta che noi celebriamo l’Eucarestia: «Voglio dunque – dice l’apostolo – che in ogni luogo gli uomini preghino, alzando al cielo mani pure, senza collera e senza contese». È bello, quando preghiamo, alzare le mani al cielo: è un gesto che, nella liturgia, è praticamente riservato solo al celebrante, ma che, in realtà, sarebbe bello, in alcuni momenti, per tutti i fedeli.
‘Alzare le mani al cielo’ significa invocare, supplicare, chiedere con umiltà e fiducia; è indicare il cielo, a noi che siamo qui con i piedi sulla terra. È un gesto in cui noi chiediamo, perché siamo poveri.

Poi è importante, come dice l’apostolo, che le nostre mani non siano sporche di male, di violenza, e di menzogna, ma siano, appunto, «mani pure»: «senza collera e senza contese», dice Paolo. Mani che lasciano cadere la collera, l’ira, i litigi e i conflitti.
Questi ci sono, ma quando alziamo le mani al cielo chiediamo al Signore che ci faccia andare oltre. Chiediamo che sia Lui a trasformare ogni sentimento cattivo, perché diventi occasione di incontro e di rapporti rinnovati.

È su questo sfondo che noi possiamo ben comprendere il Vangelo di questa domenica. È una parabola che ci può lasciare sconcertati o almeno potrebbe lasciarci disagio. È una parabola, apparentemente, difficile da comprendere.
L’amministratore di un uomo ricco viene chiamato dal suo padrone a rendere conto di quel che fa e viene licenziato ‘in tronco’, perché è stato disonesto.
Ma, prima di abbandonare il suo posto, quest’uomo colma le misure.
Sa di non aver nemmeno la forza per zappare. Per fortuna, si vergogna a mendicare: tutti lo conoscono, non potrebbero capire.
Allora arriva a una conclusione ‘scaltra’, diremmo oggi una furbata, chiaramente un’opera disonesta.

Chiama «uno per uno – tutti – i debitori del suo padrone».
Al primo chiede: «Tu quanto devi al mio padrone?». E poi gli fa un bello ‘sconto’. È generoso con i soldi altrui, quest’uomo! Non è proprio una bella generosità … Anzi, non è affatto generosità, la sua.
Quest’uomo è semplicemente un ladro. Da cento a cinquanta «barili d’olio». Tutto questo per farsi degli «amici con la ricchezza disonesta».
Quando non avrà più da lavorare, allora avrà chi lo potrà soccorrere. Andrà a rivendicare, ricordando i favori da lui elargiti. Un vero e proprio sistema di furti e di corruzione escogitato e programmato con grande cura.
Fa così con il primo, poi con il secondo e via via con tutti gli altri debitori del so padrone.
È un uomo scaltro, non c’è nessun dubbio.

Ma … come è possibile che Gesù, nella parabola, ce lo porti ad esempio? «Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce».
Per non prendere ‘lucciole per lanterne’ dobbiamo però ricordare bene che cos’è una parabola. Ogni parabola è, anzitutto, una scena o un simbolo che vengono presi dalla vita quotidiana.
Ora, questo è il nostro caso. Il mondo è pieno di persone disoneste che, magari con poca voglia di lavorare e attratti dai facili guadagni, ricchi o poveri che siano, escogitano manovre disoneste per guadagnare in modo sleale e illecito, a spese di qualcun altro. Furti, corruzioni, ruberie. La cronaca è piena di fatti del genere.
Era così anche ai tempi di Gesù.
Per questo lui parte da una scena quotidiana, molto frequente. È una scena che chi lo ascolta capisce benissimo.

Ma questa parabola è un racconto che dice altro, come ogni altra parabola.
Quando Gesù dice che il Regno dei cieli è come un chicco di grano, o un campo di grano, o una perla, usa un’immagine per dire altro. L’immagine, la cosa è sempre un simbolo. E noi dobbiamo comprenderlo. Non è automatico.
La parabola, nel suo insieme, presenta e dirige la nostra attenzione verso qualcosa d’altro, che non è immediato.
Quando Gesù parla, in una parabola, di un giudice disonesto che alla fine ascolta la supplica di una povera vedova solo per non essere più seccato da lei, non dice certo che Dio è un giudice disonesto, che ci sopporta a stento, e che vuole essere lasciato in pace.

Anche qui, che cosa sta al centro di questa parabola dell’amministratore disonesto? È la sua scaltrezza, che è una ‘saggezza’ pratica ‘usata’ male.
Quest’uomo fa dei calcoli molto astuti, per assicurarsi e garantirsi una vita comoda, lavorando il meno possibile e guadagnando alle spalle degli altri. Quest’uomo è un abilissimo ‘calcolatore’. È uno stratega, ben attento a considerare le persone, le situazioni, le circostanze, prima (passato), durante (presente) e dopo (futuro).

Gesù porta fino all’esasperazione questa immagine dell’uomo scaltro, per dirci, rovesciandola: “ecco, questo è quello che voi dovete fare nel vostro rapporto con Dio, che è – Lui solo! – la ‘vostra’ ricchezza, la vera ricchezza”.
Attenzione, dunque: Gesù qui ci mette in guardia dal lasciarci ‘catturare’ dal desiderio di ‘accumulare’ in modo disonesto.
Tra Dio e la ricchezza, accumulata in modo ingordo, c’è opposizione: «non potete servire Dio e la ricchezza». Questo significa: “attenzione a non far diventare la ricchezza il vostro idolo, ciò a cui si inchina la vostra vita. Attenzione a non diventare adoratori del denaro, perché questo vi porta a rovinare i vostri rapporti con gli altri”.

Lo dice, in modo chiarissimo, anche la prima lettura, dal profeta Amos: di tutte le vostre azioni disoneste, nel lavoro, nel commercio, un giorno, dovrete rendere conto a Dio: «Il Signore lo giura per il vanto di Giacobbe: “Certo, non dimenticherò mai tutte le loro opere”».
“Rubate sulle misure, imbrogliate il povero, approfittate di chi è indigente, di chi manca dei beni fondamentali per vivere: Credete forse di farla franca?”.

Ecco, quel che Gesù ci chiede è di avere la stessa determinazione, la stessa dedizione, la stessa capacità di strategia che quell’amministratore disonesto aveva nel male.
A noi Gesù chiede di avere queste disposizioni nel nostro rapporto con il Signore, con Dio, che è la nostra ricchezza.
Solo Dio è ricchezza. Egli è la fonte di ogni ricchezza. Quando noi dimentichiamo che Dio è donatore di ogni bene, allora diventiamo rapaci e ingordi nei nostri rapporti con gli altri. Allora tutto diventa una lotta furibonda per chi arriva primo, per chi riesce a conquistare tutto per sé, dimenticando totalmente gli altri.

Questa parabola è per tutti noi un fortissimo ammonimento. È l’invito a un esame di coscienza forte e deciso. Di chi è ‘serva’ la nostra vita? Cioè, detto in altri termini: per che cosa noi ‘spendiamo’ la nostra vita?

Non si «può servire due padroni». Se servi il denaro, non servirai Dio. Diventerai schiavo di ciò che possiedi. Se, invece, ‘servi’ Dio, allora troverai la libertà. Ti lascerai ‘conquistare’ da colui che ti ama, senza condizioni, e che è per te datore di ogni dono.
Lo è per te come lo è per l’altro, per tutti.

Vivi con saggezza e con determinazione, perfino con ‘astuzia’ la tua fede.
E ti scoprirai ricco, ricco di Dio, ricco di ogni bene!