Italia. Una legge inadeguata condanna 2mila bambini a vivere senza l’affetto di una famiglia

bambino-solo“Sono ancora migliaia i bambini ed i ragazzi che vivono in un contesto etero familiare attuato in strutture di accoglienza che non sono familiari, dove sono presenti operatori validi dal punto professionale, ma che non rispondono ai bisogni di “relazioni familiari” di cui necessitano molti bambini e ragazzi allontanati dalle loro famiglie”. Questo il punto nodale del Report presentato dalla Comunità Papa Giovanni XXIII da cui risulta che migliaia di bambini vivono in strutture di accoglienza che, pur valide, non rispondono ai bisogni di relazioni familiari. Questo nonostante siano trascorsi 8 anni dal superamento del ricovero di minori in istituto, realizzatosi nel 2006 grazie alla legge 149/2001

Il problema è che la legge 184/83, poi modificata dalla legge 149/01, “definisce impropriamente tutte le comunità quali comunità di tipo familiare” non distinguendo tra quelle che sono davvero strutturate come una famiglia, con un papà e una mamma presenti a tempo pieno, e le comunità gestite da educatori a turno.

Nello specifico la legge 149/01, non distingue tra quelle che sono davvero strutturate come una famiglia, con un papà e una mamma presenti a tempo pieno, e le comunità gestite da educatori a turno. Il risultato di questa ambiguità legislativa è che quei bambini anche molto piccoli che sono stati collocati in comunità – oltre 1000 da 0 a 2 anni, 2100 se si arriva fino a 5 anni, secondo i dati del Ministero del lavoro e politiche sociali al 31/12/2011 – potrebbero essere privati delle relazioni familiari fondamentali in questa fase del loro sviluppo.

Da qui la necessità impellente che Parlamento e Governo si attivino per modificare la legge 184/83, eliminando l’impropria definizione di Comunità di tipo familiare e distinguendo con chiarezza le varie tipologie di comunità.

Cosa dovrebbe prevedere la nuova norma?  Un principio base: che i minori allontanati dalla famiglia di origine possano essere collocati in una famiglia affidataria o in una struttura familiare gestita da una coppia di coniugi o comunque da una figura paterna e materna presenti a tempo pieno, come avviene nelle comunità familiari e nelle case famiglia multiutenza, e solo quando questo non sia possibile si ricorra alle comunità educative. Misure ancora più precise andrebbero previste per i più piccoli: per l’accoglienza dei bambini sotto i sei anni va disposto che questa possa avvenire solo nelle famiglie affidatarie o Case Famiglia o nelle Comunità Familiari, vietando l’inserimento nelle Comunità Educative. 

Del resto, principio ispiratore e punto cardine del Manifesto “Riforma dell’affido” di Ai.Bi., Amici dei Bambini, è proprio il superamento e quindi la chiusura entro il 31 dicembre 2017 delle comunità educative (CE) per cambiare passo nelle politiche sociali a favore dei minori fuori famiglia. “Le Comunità educative, fatto salvo di quelle altamente specializzate – si legge nel Manifesto di Ai.Bi. -, vanno chiuse esattamente come lo sono stati gli istituti, perché non sono gestite da figure genitoriali e funzionano in maniera analoga agli istituti. Il minore deve avere sempre una coppia genitoriale di riferimento”.