Vita. Adozioni internazionali: una gestione politica molto dirigistica sta mettendo in ginocchio un fiore all’occhiello italiano

America, la crisi delle adozioni colpisce al cuore“Negli ultimi quattro anni sono crollate di oltre il 30%. Costi sempre più alti, tempi sempre più incerti, chiusura delle frontiere, ma anche una gestione politica molto dirigista stanno mettendo in ginocchio un fiore all’occhiello italiano”. Così Gabriella Meroni descrive la situazione attuale delle adozioni internazionali nel nostro Paese. L’esperta giornalista ha pubblicato sul numero di dicembre del mensile “Vita” un interessante e completissimo articolo su questo delicato tema. Riportiamo di seguito il testo integrale.

 

2020, fine delle adozioni? Tempo sei anni, e non ci saranno più coppie italiane disposte ad adottare un figlio. La previsione che-più-pessimista-non-si-può viene da un’esperta, Irene Bertuzza di Ai.Bi., e tiene conto di un dato incontrovertibile: gli italiani adottano sempre meno. Dal 2010 il calo delle adozioni internazionali è andato avanti a colpi di -10% l’anno, i Paesi da dove un tempo provenivano i bambini abbandonati chiudono le frontiere, l’iter preadottivo dura sempre di più e costa molto, il fondo governativo da cui si attingevano i rimborsi fiscali per le coppie adottanti è fermo a zero euro. Risultare: adottare costa tempo, fatica, denaro. Chi non dispone in abbondanza anche solo di uno di questi tre elementi, getta la spugna. Rinuncia al sogno di un figlio o, più probabilmente si sposta verso la fecondazione assistita, magari anche eterologa, visto che in molte regioni ormai è quasi gratis.

 

Una disfatta inimmaginabile fino al 2010 – l’anno record per le adozioni internazionali in Italia, quando 4130 minori trovarono una famiglia qui – e particolarmente dolorosa per un Paese come il nostro, secondo in assoluto al mondo per numero di figli venuti da lontano, dietro il “gigante” Stati Uniti. Eppure i numeri parlano chiaro: dal 2010 al 2013 le adozioni internazionali sono crollate del 31% e, secondo le stime delle associazioni del settore, quest’anno si chiuderà con un ulteriore -15%. L’emorragia riguarda anche le coppie: nel 2013 quelle che hanno portato a termine l’iter sono diminuite del 7,2% rispetto all’anno precedente, mentre rispetto al 2010 il calo è stato addirittura del 70%. “Tutto vero, ma questo è un settore in cui non si misura il successo dai numeri”, avverte Paola Crestani, presidente di Ciai. “Noi crediamo che l’importanza sia la qualità, l’attenzione, la professionalità e il rispetto delle leggi”. “Il calo c’è e ci preoccupa, tuttavia siamo convinti che da questa crisi si possa uscire con la professionalità di tutti gli attori in gioco: sono migliaia i bambini adottabili che hanno diritto ad avere una famiglia e che rischiano di esserne privati”, chiarisce Cristina Nespoli, presidente di Enzo B. La diminuzione però è un trend globale, dovuto a una molteplicità di fattori; primo, la maggiore propensione dei Paesi di provenienza a garantire una famiglia ai minori abbandonati in loco, con l’adozione nazionale, invece di inviarli in Paesi tanto diversi da quello in cui sono nati. Secondo, le reali motivazioni che portano un bambino povero in un orfanotrofio, motivazioni che spesso non sono dovute a un abbandono effettivo: da una ricerca della ong britannica Lumos è emerso infatti che a livello mondiale oltre il 90% degli 8 milioni di minori oggi in istituto hanno almeno un genitore o un parente stretto ancora in vita, e potrebbero quindi essere riuniti alla famiglia. In pratica, non sono soli al mondo e dunque non possono essere adottati.

Se si aggiunge a tutto questo il traffico internazionale di minori e i più accurati controlli che le autorità centrali mettono in campo per scoraggiare qualsiasi tipo di commercio di bambini, il quadro è completo. Si fanno meno adozioni perché ci sono meno bambini da adottare. Ma è tutto qui?

 

Sembrerebbe di no, almeno osservano la “crisi” nostrana. Se infatti la discesa globale delle adozioni internazionali è iniziata da una decina d’anni, l’Italia fino al 2010 ha visto il settore crescere non solo in quantità, ma anche in qualità, tanto che il nostro sistema – come riconosciuto da diversi governi e da tutti i presidenti della Commissione adozioni, compresa l’attuale Silvia Della Monica – è preso a modello quanto a legislazione, tutela dei minori, impegno del governo e protagonismo delle associazioni del privato sociale. Inoltre è innegabile che di bambini abbandonati al mondo, purtroppo, ce ne sono ancora moltissimi. Le ragioni vanno quindi cercate (anche) altrove, magari nella triade “tempo, fatica, denaro”. “Soprattutto denaro”, commenta amaro Pietro Ardizzi, portavoce del coordinamento Oltre l’Adozione, che riunisce 14 enti autorizzati. “Da due anni infatti le attività della Commissione adozioni non vengono finanziate, e neppure i rimborsi delle spese sostenute dalle famiglie, che per legge possono arrivare fino al 50% delle spese certificate dagli enti, in relazione al reddito. Quindi tutti i costi gravano sulle spalle dei genitori adottivi”. Non si tratta di cifre di poco conto (si può arrivare fino a 40mila euro tra spese fisse, di viaggio e soggiorno all’estero), che la normativa infatti prevede di rendere per metà deducibili; peccato che i fondi per finanziare questo sostegno non siano più stati stanziati nelle leggi di Stabilità degli ultimi due anni. E se il governo ha promesso, per bocca del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Graziano Delrio, di “sostenere economicamente” i genitori adottivi, magari attraverso un bonus di 5mila euro proposto da un emendamento alla legge di Stabilità dell’onorevole Pd Edoardo Patriarca, per ora la situazione è desolante: zero vantaggi fiscali e zero fondi per la Cai. Quanto ai tempi richiesti per portare a termine la procedura adottiva, i dati dell’anno scorso parlano di una media di 3,3 anni a partire dalla disponibilità presentata in tribunale fino all’autorizzazione all’ingresso in Italia del minore, con punte massime di 5 anni e mezzo (per la Lituania). Ma per nessun Paese si scende sotto i 2,8 anni. E la fatica? È innegabile che negli ultimi anni è aumentata la quota di bambini adottabili con “special needs” (malattie, disabilità, gravi disagi psico-affettivi o disturbi cognitivi) – nel 2013 uno su 5 apparteneva a questa categoria – e si è alzata l’età media dei minori: sempre l’anno scorso, il 58% di quelli adottati in Italia aveva più di 4 anni.

 

Meno bambini adottabili, meno fondi, tempi più lunghi, minori più grandi o con più bisogni. Bastano, ancora una volta, questi fattori per spiegare l’empasse che si trascina dal 2010? Ancora una volta, no. Le acque sono agitate anche per altri motivi, molto più casalinghi. Primo fra tutti, la situazione politico-gestionale in cui si è venuta a trovare la Commissione adozioni internazionali almeno dal 2011, dopo la caduta del governo Berlusconi e l’avvento dei presidenti Monti e Letta, fino all’attuale Renzi.

Come spiegano molti presidenti di enti autorizzati, in passato la Cai era solita lavorare a stretto contatto con le associazioni, oggi una sessantina, che in base alla legge 476/98 devono affiancare le coppie in tutto l’iter; esistevano gruppi di lavoro, incontri periodici, interlocuzione diretta e continua, un presidente-ministro con funzioni politiche (per fare due nomi noti degli anni 2000, Rosi Bindi e Carlo Giovanardi) e un vicepresidente tecnico (dal 2007 al 2013 Daniela Bacchetta). “A fine 2011 qualcosa è cambiato”, spiega Gianfranco Arnoletti, presidente del più grande ente autorizzato italiano, il Cifa. “Perché i ministri Riccardi e Kyenge, avevano anche altre deleghe e faticavano a occuparsi anche della Cai, tanto è vero che non hanno mai convocato gli enti.

La vicepresidente Bacchetta ha sempre lavorato, ma la mancanza di una vera guida politica si è fatta sentire”. Nel frattempo il governo Letta aveva nominato, in uno dei suoi ultimi atti, la nuova vicepresidente Silvia Della Monica, e nuove speranze si erano accese a maggio con l’impresa del premier Matteo Renzi che, detentore in prima persona della presidenza della Cai (ma senza le relative funzioni, affidate a Della Monica) aveva portato a casa in diretta tv i bambini adottati in Congo e bloccati laggiù da un irrigidimento dei rapporti tra il nostro Paese e Kinshasa. Mentre la fatina Elena Boschi li scortava giù dall’aereo, il premier aveva anche twittato: “Ora, con la riforma del Terzo settore, ancora più attenzione alle adozioni internazionali”. Bene, bravo, bis. Con il fiato sospeso, gli enti autorizzati attendevano dunque una riforma o, quantomeno, un segnale di attenzione senza precedenti; convocati finalmente, dopo due anni e mezzo di limbo, dalla “presidente di fatto” Della Monica a luglio, avevano dato vita per la prima volta a un coordinamento maggioritario che ne riuniva 45 su 62 (“Uniti per l’adozione”), presentando un documento in cui chiedevano “spirito collaborativo” e “incontri periodici” con la Cai.

Ma era dal governo che ci si attendeva la traduzione in pratica della “maggiore attenzione”. Invece. Silenzio sui fondi che non ci sono, silenzio sulle tante questioni aperte, come quella non ancora risolta del Congo, dove decine di coppie già abbinate ad altrettanti bambini attendono di poterli abbracciare (“Ma il silenzio non significa inattività, il presidente sta lavorando a questo dossier”, dice a Vita la presidente della Cai), silenzio in generale su un tema che doveva essere addirittura inserito nella riforma del Terzo settore e che invece è rimasto, almeno dal punto di vista normativo, fermo al palo. Nel silenzio (si spera pieno di lavori in corso) di Renzi, parlano però – e a voce decisamente alta – molti altri, a partire dall’ex presidente della Cai Giovanardi, che con l’ex ministro Sacconi ha presentato un’interpellanza molto critica nei confronti dell’attuale presidente della Commissione, passando per il palese disagio di Ai.Bi., il secondo ente autorizzato italiano, che dopo aver sospeso l’accettazione di nuovi incarichi (“Non posso illudere le famiglie”, dice il presidente Marco Griffini) ha diffidato la Cai denunciando presunte pressioni volte a scoraggiare le coppie dall’affidarsi ai propri servizi, per finire con lo scioglimento per “diversità di vedute” del coordinamento Uniti per l’adozione.

Acque agitate, sulle quali veleggia però la corazzata della Commissione, che fa sapere di continuare a lavorare serenamente e di avere comunque sbloccato, nei mesi scorsi, le adozioni in Paesi come Burundi e Cambogia, e di continuare a operare per una nuova positiva soluzione della vicenda Congo. Intanto però molti fra gli enti più piccoli (oltre un terzo non superano le 50 adozioni l’anno) rischiano di dover chiudere i battenti per mancanza di coppie.