Afghanistan, il grido dell’abbandono: quando un bambino uccide un altro bambino

Kamikaze e orrore in Medio Oriente: un ragazzino di soltanto 14 anni si fa esplodere davanti al quartier generale della Nato a Kabul e presso la sede della Cooperazione italiana, uccidendo sei ragazzi di strada, venditori ambulanti, mentre scambiano oggetti con i passanti.

Era l’8 settembre, sabato scorso. La notizia è stata ufficializzata dal ministro afghano dell’Interno, Sediq Seddiqi, con la dichiarazione, riporta l’Agenzia Giornalistica Italiana, che “altri cinque ragazzini sono rimasti feriti. Le vittime, di età compresa tra i 15 e i 18 anni, guadagnavano qualche spicciolo pulendo le auto e vendendo piccola merce ai militari”.

L’attentatore ha agito in un giorno di festa nazionale, la commemorazione dell’undicesimo anniversario della morte di Ahmad Shah Massud, il capo della guerriglia contro Urss e talebani. È arrivato in bicicletta fino alla base di Camp Eggers, che ospita 2.500 istruttori militari dell’Alleanza atlantica.

Subito rivendicato dalle frange fondamentaliste talebane, l’episodio è uno dei più sanguinosi registrati nell’ultimo anno. Infanzia violata, fino al punto estremo di far uccidere i minori tra di loro sfruttando la loro rabbia repressa e le loro condizioni di emarginati dalla società e dalla tutela di una famiglia. Chi deve sentirsi responsabile? La gravità dell’atto va ben oltre l’amaro conteggio del bollettino di guerra e tocca le nostre coscienze di italiani e di cittadini del mondo: che cosa stiamo facendo ai nostri bambini? Pur nelle migliori intenzioni, i fatti non parlano forse di un abbandono nell’abbandono?

La coscienza occidentale sta dimenticando la sorte dei minorenni che vivono sul pianeta, in particolare dei minori abbandonati dalla famiglia in mezzo a una strada, o rimasti orfani per via della guerra e delle crisi umanitarie. Li stiamo abbandonando una seconda volta: la crisi dell’accoglienza in atto in Italia non è che il rovescio di questa medaglia. Relegati nell’anticamera delle politiche sociali; chiusi negli istituti di tutti i continenti o, peggio, in istituti ridipinti da comunità educative; legati alla catena di affidi sine die che prolungano soltanto il loro disagio di stare lontani da una famiglia vera, quale solo l’adozione in parecchi casi potrebbe dare; davanti a tutto questo, poniamoci la più vera e decisiva delle domande: stiamo derubando i bambini della loro infanzia?