Per noi la sterilità non è un lutto, ma l’inizio di una strada diversa: ma come dirlo ai servizi?

Siamo sposati da 5 anni. Desideravamo tanto dei figli che non sono arrivati.

Abbiamo vissuto la nostra sterilità avvicinandoci di più e senza mai sentirla come un lutto ma come l’inizio di una genitorialità che avrebbe solo percorso una strada diversa. Così abbiamo fatto domanda per l’adozione e ora siamo stati convocati dai servizi.

Possiamo dire loro che la nostra sterilità non è stata un lutto o questo li porterà a pensare che non siamo pronti ad accogliere un bambino che non è nato da noi?

Forse, anche noi, come ci suggerisce chi ha già fatto il percorso con i servizi, dovremmo dire di aver elaborato il lutto della sterilità?

 Grati per i vostri consigli, saluti Giulia e Antonio

Carissimi,

l’interlocuzione coi professionisti dei servizi territoriali è un segmento importante del cammino adottivo: lo immagino caratterizzato da un dialogo e un confronto onesto, sincero, e ispirato ad un condiviso approfondimento delle autentiche motivazioni che aprono la vita di due coniugi verso l’accoglienza adottiva, una preziosa disponibilità non una rivendicazione di opportunità.

Spesso, anche se non obbligatoriamente, la prospettiva adottiva viene esplorata da coppie la cui relazione è segnata dalla esperienza della sterilità.

Tale condizione, lungi dall’essere un’automatica e necessaria smentita o negazione della fecondità della coppia e delle sue potenzialità, interroga comunque i coniugi i quali sono chiamati ad operare un profondo discernimento circa la propria situazione, individuale e relazionale, al fine di scegliere come rispondere nella e con la propria vita ad un presunto “lutto”, ad una “assenza” che pare invece interpellare ulteriormente.

Di fronte alla sterilità si aprono diverse opzioni, alcune decisamente alternative: c’è chi rinuncia alla prospettiva genitoriale e c’è chi la conserva, intuendo nella sterilità non semplicemente una fertilità mortificata ma una fecondità sollecitata a scoprire nuovi orizzonti, anche se messa alla prova.

Per quanti non prendono solo atto e “non si arrendono” al dato fisiologico vi sono poi ulteriori, possibili e diversi percorsi: c’è chi si incammina sulle strade della procreazione medicalmente assistita, talvolta spingendosi anche sino alle soglie di prassi (maternità surrogate; fecondazione eterologa; …) sulla cui eticità ci permettiamo di dubitare fermamente in ragione del necessario riconoscimento dovuto all’identità e dignità dei figli (mai oggetto di presunti diritti o beni da pretendere e conseguire ad ogni costo); c’è inoltre chi si incammina sulle strade dell’adozione, intraprendendo, come dite voi, una “strada diversa”, una prassi in grado di assicurare una mamma e un papà a bambini abbandonati (da accogliere sempre come un dono), che riconosce e restituisce loro la dignità filiale mentre risponde autenticamente ad un sincero e fecondo desiderio di genitorialità.

La sterilità è certamente una “prova” non automaticamente un “lutto”, chiede di verificare la fecondità della relazione e il senso del desiderio di un figlio coltivato dalla coppia.

Parlare della propria sterilità riletta oltre la logica del “lutto”, offrendo le ragioni e le speranze di una fecondità ancora creativa, per molti “occasione di grazia”, è onesto e, ritengo, motivo di affidabilità.

Gianmario Fogliazza

PS Per un approfondimento del tema suggerisco la lettura dei testi raccolti nel volume curato da M. Griffini, Sterilità feconda: un cammino di grazia (Milano 2009), in particolare il contributo di G. Guidetti, L’esperienza psicologica della sterilità (pp. 29-45) e quello di M. Chiodi, «Grazia» e libertà. La sterilità della coppia, la fecondità dell’accoglienza (pp. 83-103). Di M. Chiodi segnalo inoltre anche l’articolo “Il senso antropologico della sterilità nella coppia”, in Lemà sabactàni? n. 9(2012), pp. 43-61.

Gianmario Fogliazza

Centro Studi Ai.Bi.