Adozione, coppia bloccata in Mali. La storia di Bilali


421813“Ieri Bilali ha compiuto dieci mesi. Da 28 giorni siamo qui a Bamako (Mali), nella sua terra,
e ancora non si scorge una data possibile di ritorno a casa in Italia. Del resto, la letteratura in tema di adozione ci aveva preparato sulle lungaggini burocratiche.” E’ il racconto di Monia e Sandro, due genitori, che insieme ad altre due coppie, dalle Marche hanno intrapreso il lungo percorso dell’adozione, e per di più si sono dovuti scontrare con un paese in guerra: il Mali.

“Sono passati tre anni pieni, da quando nel 2009 abbiamo fatto la prima richiesta di adozione. Sono stati tre anni pieni di lungaggini burocratiche. Il tribunale nazionale ci ha chiamati due volte per delle proposte di abbinamento che, dopo lunghe e sofferte riflessioni, abbiamo sempre rifiutato. Poi è la volta del Mali, dove ci è stato “assegnato” Bilali. Ma una volta inviati i documenti in questo paese, è saltato il governo per il primo colpo di stato, situazione del tutto imprevedibile, perché considerato un paese politicamente stabile. Da quel momento si sono succeduti eventi che fino alla fine ci hanno tenuti col fiato sospeso. Non ultima una legge nazionale voluta dalla parte islamica del governo, che blocca le adozioni internazionali nel paese. E così, noi saremo gli ultimi, ad oggi”.

”Gli orfanotrofi – prosegue – accolgono ogni giorno decine di bambini. La direttrice dell’Ase Mali, da cui viene Bilali, ci ha pregato di trovare famiglie per i loro piccoli, che con la guerra arrivano numerosi, ma la legge non lo permette. Gli orfanotrofi non hanno sovvenzioni pubbliche, e oggi sono in forte difficoltà, il latte non basta, l’acqua non c’è e i bimbi sono fortunati se mangiano un biberon di latte al giorno. E ci tocca andar via col cuore pesante, nel guardare tanti occhietti, piccole perle nere, che ci salutano fiduciosi, e noi sappiamo che le porte dell’istituto per loro, ad oggi, non si riapriranno”.

Gli adempimenti burocratici per l’adozione di Bilali si sono complicati con lo scoppio della guerra. “La gente al momento è impaurita, si dorme con il rombo degli aerei in sottofondo. – racconta Monia – I funzionari locali rimandano in continuazione gli impegni che ci consentirebbero di tornare in Italia. I nostri sentimenti sono confusi e contrastanti. Pensare di lasciare la terra di nostro figlio così ferita, così devastata, ci rende tristi. Se fossi stata a casa, ad osservare la scena in tv, avrei sicuramente indossato l’idea non interventista, fedele al credo di lasciare che ogni popolo sia artefice della sua storia, evitando le forme di neocolonialismo che l’occidente importa con le sue missioni di pace.

Ma essere qui, in terra bellica, mi fa osservare con altri occhi l’intervento armato francese. Vedere la bandiera francese che sventola accanto a quella verde, gialla e rossa maliana sui motorini che sfrecciano nel traffico caotico della capitale, ascoltare i racconti disperati della gente che, dalla conquista islamica del nord, ha perso il lavoro, perché nessun turista mette più piede qui, vedere il nostro fidato autista pensare di vendere il tradizionale braccialetto d’argento col suo nome che orgoglioso porta fin dalla nascita ….mi fa pensare che, al di la degli interessi francesi in gioco, senza di loro, il Mali sarebbe diventato uno stato fondamentalista, e questa gente non lo vuole. Non sono più integralisti di quanto possiamo esserlo noi, nessuna donna dal passo elegante a sfidare la polvere rossa che ovunque si infila penserebbe di infilarsi il burqa e chiudersi in casa, nessun uomo accetterebbe di venir frustato 70 volte per aver fumato una sigaretta, come sta accadendo da mesi a Mopti e a Gao, a 700 km da Bamako”.

A confortare i due neo genitori è Bilali. “Ci è stato dato in braccio per la prima volta, il giorno di Natale e consegnato dal referente dell’orfanotrofio. – prosegue Monia – Il tempo di due foto di rito, e subito siamo stati catapultati nel mondo dei genitori. Nulla su di lui ci è stato raccontato, cosa fosse abituato a mangiare, come dormisse, cosa facesse fino a pochi attimi prima. Ci è stato donato, e lui è venuto fiducioso. Un bimbo che, a soli dieci mesi, ha già dovuto ricominciare fin troppe volte, eppure così sorridente e sereno, da far pensare che la natura umana disponga di risorse che tendiamo a sottovalutare.

Ad oggi, non sappiamo ancora quanto pesa, quanto è lungo, non abbiamo un’analisi del sangue né ha fatto una vaccinazione, nessun pediatra ci ha detto come e cosa debba mangiare né quanto ha mangiato finora, ma qui si impara presto ad osservare e a capire cos’è essenziale e cosa no. E si impara per necessità a fidarsi del proprio istinto e delle proprie risorse… perché, se sappiamo osservare, lui sa benissimo farci capire tutto ciò di cui ha bisogno. Siamo scesi giù con taglie di vestiti varie, dai 6 ai 18 mesi, e con la consapevolezza che, anche se sapevamo che nel certificato ci dicevano maschio, avremmo potuto trovare una sorpresa!”

”Percorrere il cammino dell’adozione è una scelta forte. – concludono i due genitoriCapisco benissimo perché le adozioni siano in calo, perché questo percorso, al di là della crisi economica e delle difficoltà a credere nel futuro, spaventi molti. Anch’io, nel pensare un giorno di dare un fratellino al mio Bilali, non so se avrò la forza e il coraggio di ricominciare tutto di nuovo. Adottare significa saper essere ponte tra due terre e due madri, saper essere la memoria che lui non potrà avere, saper tessere un senso alla sua storia e alle sue origini, un senso che sia accettabile e narrabile a se stessi, un senso che permetta di far pace, prima o poi, con l’idea che chi ti ha messo al mondo ti ha lasciato, forse per offrirti una nuova chance”.

( Da Vita, 21 Gennaio 2013)