Anche il Giappone ha capito che la famiglia è meglio dell’istituto!

japan200Se ci sono arrivati loro, i figli del Sol levante, all’avanguardia nella tecnologia e nella società, ci si può fidare. La famiglia è l’unica istituzione che può garantire il corretto sviluppo cognitivo e affettivo di un bambino. Al bando gli istituti, spesso responsabili di ritardi mentali nei bambini ospitati, e luogo di coltura per abusi ed episodi di bullismo.

Human Rights Watch, in un recentissimo Rapporto, ha denunciato che il sistema alternativo di assistenza all’infanzia vigente in Giappone, fondato sugli istituti, sta sfornando migliaia di individui adulti incapaci di affrontare una vita produttiva indipendente nella società giapponese.

Secondo le statistiche del governo nipponico, più di 39.000 bambini in Giappone vivono in diversi tipi di istituto, tra cui istituti di assistenza all’infanzia, istituti terapeutici a breve termine, case famiglia per la vita indipendente.

Il rapporto di Human Rights Watch, un documento di 119 pagine, si intitola “Senza Sogni: Bambini in un sistema di assistenza alternativa in Giappone” ed è il primo importante rapporto di HRW sul Giappone.

“E’ straziante vedere bambini stipati negli istituti e privati ​​della possibilità di vivere in un ambiente familiare premuroso”, dice Kanae Doi, direttore giapponese di Human Rights Watch. “Mentre altri paesi sviluppati – prosegue Doiinseriscono i bambini più vulnerabili in un sistema di assistenza basato sulla famiglia, in Giappone uno scioccante 90% finisce negli istituti.”

Solo una percentuale minima di bambini sottoposti al sistema di assistenza alternativo giapponese usufruisce di un’accoglienza familiare.

Un contesto, quello degli istituti,  che si presta a degenerare in un sistema abusivo, privando i bambini della base familiare che numerosi studi hanno dimostrato essere fondamentale per il loro sviluppo e benessere. Forse più dei dati emersi dal Rapporto, sono eloquenti le testimonianze di chi negli istituti è cresciuto

Non ho alcun sogno per il futuro”, questa la triste ammissione di Nozomi M. (nome di fantasia) , 15 anni, che vive in un istituto a Osaka.

Sono stato picchiato da una mazza da baseball, in faccia. Ai ragazzi più grandi bastava che girasse storta la giornata per decidere di colpirmi. Il personale dell’istituto era una vecchia signora, non era in grado di difendermi e non ha nemmeno denunciato l’accaduto.” E’ la sconcertante testimonianza di Toshiyuki Abe, 19 anni, ex residente di un istituto e vittima di bullismo negli anni in cui vi ha vissuto.

Una sensibilità, quelli dei minori ospitati in istituto, che non è facile ingannare. Acuta la coscienza di Kenji M. (nome di fantasia), 17 anni, che vive in istituto a Tokyo: “Molti di coloro che lavorano nell’istituto si prendono cura di noi solo perché questo costituisce il loro lavoro. Loro non ci amano.

Le relazioni di attaccamento instaurate con i genitori sono importanti per la normale crescita del cervello. I legami di attaccamento stabiliti entro i primi tre mesi dalla nascita – dichiara Sumiko Hennessy, direttore del Crossroad Social Work, professore emerito della Tokyo Welfare University – e quelli stabiliti dopo tale periodo, si differenziano per profondità e qualità. In Giappone, si è assistito a un fenomeno di creazione di bambini mentalmente ritardati, inserendoli negli istituti infantili.

Ayumi Takagi (nome di fantasia), 24 anni, ex residente di un istituto di Tokyo, una volta uscita dall’istituto, abbandonata a se stessa, si guadagnava da vivere esercitando la prostituzione: “Non avevo nessuno con cui parlare dopo aver lasciato l’istituto. I miei genitori mi hanno abbandonato quando avevo due mesi – precisa Ayumi quindi non c’era modo che potessi tornare da loro. Non potevo tornare in istituto e non volevo prostituirmi. Io cercavo soltanto un luogo cui appartenere.”

Sull’onda di queste considerazioni, allora, si pone imperativa l’esigenza di affrontare in Italia l’analoga problematica posta dalle Comunità educative. Sebbene esse non siano equiparabili agli istituti, rappresentano un modello di assistenza all’infanzia inadeguato a garantire quell’accoglienza familiare che anche dall’altra parte del mondo hanno riconosciuto come l’unica in grado di tutelare i minori. C’è dunque un unico protagonista della buona e giusta accoglienza: la famiglia. Sulla capacità dei governi di investire di su essa, si giocano le possibilità di costruire una società più giusta e più accogliente.

 

Fonte: (Human Rights Watch)