Aylan commuove solo d’estate

aylan1Riportiamo integralmente l’editoriale pubblicato su “Il Fatto Quotidiano” giovedì 10 dicembre a firma della giornalista Caterina Soffici.

 

Vi ricordate il piccolo Aylan? Il nome forse l’avevate già dimenticato, ma la foto no. Era il bambino siriano, tre anni, la maglietta rossa e in pantaloncini blu, le scarpe ancora ai piedi, la testa nelle onde, il corpicino riverso sulla spiaggia di Bodrum, in Turchia. Morto con la mamma e il fratello su una barca che si era rovesciata nel tentativo di scappare dalla guerra in Siria. Volevano andare in Canada, ricordate? Giornali e televisioni avevano fatto a gara a intervistare la zia canadese, il padre di Kobane, la fotografa che aveva immortalato la scena. Tutti hanno avuto i loro 15 minuti di celebrità, in quella vicenda. Soprattutto si erano rovesciati i soliti fiumi di retorica.

Quanti titoli, quante parole sprecate. Ne ho ritrovati al volo alcuni, li butto lì, tanto per capirci: “Il piccolo simbolo dei viaggi della speranza”. “I bambini dovrebbero solo giocare sulla spiaggia. Non morire così”. “Questo bambino sta rompendo il muro dell’indifferenza”. “Il bambino che cambiò la storia”. “Aylan sta riuscendo a rimettere il tema dei profughi siriani in cima all’agenda europea”.

Addirittura la fotografa diceva di “essere venuta al mondo per scattare quella fotografia del piccolo Aylan”. Perfino il Guardian raccontò che il premier David Cameron, commosso dalla foto, aveva deciso di accogliere più siriani. “Chiunque sia un padre e abbia visto quella foto non può far altro che commuoversi”.

Insomma, il solito delirio di melassa e buonismo che fa venire l’orticaria (almeno a me). Cosa è rimasto di quella commozione? Potete giudicare da soli.

Era settembre. E allora eravamo tutti ancora molto attenti a cosa succede nel Mediterraneo. Perché eravamo appena tornati dalle vacanze e al mare ci andiamo a fare il bagno. Ci avete fatto caso? D’estate l’emergenza migranti è sulle prime pagine, d’inverno miracolosamente sparisce. Certo, è vero. D’inverno ci sono meno barconi in arrivo. Ma i bambini muoiono lo stesso. Ieri, solo per fare un esempio, un altro barcone carico di migranti è affondato nelle acque dell’isola greca di Farmakonissi. Sono morte almeno 11 persone, e di queste, 5 erano bambini. Farmakonissi? Dov’è? Boh. Chi lo sa. Non si sa. E chissenefrega. E poi fa freddo, tra un po’ è Natale, si aspettano renne e neve, si guarda più alla montagna, che al mare.

Eppure ieri la Fondazione Migrantes ha diffuso dati agghiaccianti. I morti sono più che raddoppiati nel 2015 rispetto al 2014, passando da 1.600 a oltre 3.200. E di queste morti dimenticate, ci sono oltre 700 bambini. Solo dall’inizio dell’anno.

Sì, avete letto bene. Significa più di due bambini al giorno. Due piccoli Aylan al giorno, che però non hanno trovato spazio sui giornali e tantomeno nei cuori di chi allora si era strappato i capelli per il povero bambino con la T-shirt rossa. Si dirà, che era stata proprio la potenza di quell’immagine a creare il trambusto di allora. Ma non è vero. Ce ne sono state tante altre di foto di bambini morti in mare. Neonati addirittura. Bambini recuperati dai barconi, inutilmente avvolti nelle coperte termiche, perché erano già morti.

Ma la nostra commozione, come quella del pubblico e dei lettori, è destinata a durare il tempo di uno scatto fotografico.

E’ la legge del giornalismo, bellezza. E tu non puoi farci niente, direbbe chi sa di queste cose. È vero. Il giornalismo è fatto così. È stretto tra il cinismo e la retorica. Ricordo come imparai da un vecchio capocronista come si decide il rilievo da dare a un morto. Nero, marocchino o cinese, una breve (se ci sta). Vecchio, taglio basso, a meno che non sia famoso. Giovane, apertura. E se è donna, cercare di mettere una foto dove si vedono le tette.

Non so se questo cinismo sia peggiore della retorica. Probabilmente no. A settembre, ai tempi di Aylan, su Internet divenne virale l’hashtag #KiyiyaVuranInsalik (l’umanità che si è schiantata contro gli scogli). A quanto pare si è schiantata e lì è rimasta.

 

Aylan e molti altri bambini che trovano la morte in mare vengono dalla Siria. Un Paese in guerra da cui milioni di persone, da anni, fuggono alla ricerca di speranza. Ma questa speranza troppo spesso si inabissa tra le onde del Mediterraneo. Per questo Amici dei Bambini si impegna ogni giorno per cercare di garantire alle famiglie e ai bambini siriani i diritti fondamentali per poter continuare a vivere nel proprio Paese. Il progetto Io non voglio andare via, nell’ambito della campagna Bambini in Alto Mare, si propone di assicurare ai piccoli siriani il diritto alla casa, all’educazione, al cibo, alla sanità e al gioco. Una ludoteca sotterranea, un forno per la produzione di pane, il sostegno alle cliniche locali sono alcuni dei più importanti interventi messi in atto da Ai.Bi. in Siria. Con un Sostegno a Distanza sarà possibile continuare a ridare speranza ai bambini siriani aiutandoli a sentirsi a casa nel proprio Paese.