Neonato lasciato all’ospedale, ma nato in un capannone. Con il parto in anonimato sarebbe stato tutto più sicuro

Un neonato e sua mamma sono stati portati all’ospedale Buzzi di Milano poco dopo il parto, avvenuto in un capannone. Qui la mamma ha comunicato di non voler riconoscere la figlia: sono proprio questi i casi in cui il parto in anonimato garantisce sicurezza e tutela alle mamme e i bambini

Ancora a Milano. Ancora un neonato affidato dalla mamma alle cure di un ospedale e a una possibile, veloce adozione (passati i 10 giorni di tempo che vengono garantiti alla madre naturale per cambiare idea e tornare a prendere il figlio).
Se, però, il caso di Enea di cui tanto si è parlato aveva i contorni relativamente più sicuri di una Culla per la Vita, nello specifico quella della Clinica Mangiagalli di Milano, in cui la mamma ha lasciato il piccolo, nato da circa una settimana, questa volta sarebbe potuta andare molto peggio, tanto per la madre quanto per la neonata.
Perché, a quanto ricostruito da Avvenire, è stato solo grazie all’intervento di qualcuno che ha chiamato un’ambulanza se le mamma e figlia sono potute arrivare velocemente (un’ora circa dopo il parto) nelle sicure mura dell’ospedale Buzzi di Milano, dove sono state somministrate le cure necessarie e dove la donna ha dichiarato ai medici la sua intenzione di non riconoscere la figlia.

Serve diffondere la conoscenza della possibilità del Parto in Anonimato

Una vicenda che evidenzia una volta di più la necessità di una seria ed efficace campagna di comunicazione che possa far conoscere la possibilità del parto in anonimato. Come riporta il sito del Ministero della Salute, infatti: “La legge consente alla madre di non riconoscere il bambino e di lasciarlo nell’ospedale in cui è nato (DPR 396/2000, art. 30, comma 2) affinché sia assicurata l’assistenza e anche la sua tutela giuridica. Il nome della madre rimane per sempre segreto e nell’atto di nascita del bambino viene scritto “nato da donna che non consente di essere nominata”.
Ferma restando la volontà, pienamente legittima, di non voler tenere con sé la figlia, questa donna avrebbe potuto tranquillamente recarsi in un ospedale e partorire lì, in sicurezza e con la stessa assistenza garantita a tutte le madri che partoriscono.
E forse, in questo modo, questa nascita non sarebbe stata nemmeno una “notizia” che, in questi casi, se da un lato può aiutare a far conoscere una possibilità evidentemente ancora troppo poco conosciuta, dall’altro rischia di creare una cassa di risonanza che può spaventare ulteriormente le donne e creare un ostacolo in più nel decidere di utilizzare questo servizio di civiltà, di grande umanità e di tutela di tutte le parti in causa.