La culla per la vita. Rispettiamo il dono della mamma di Enea

Ha suscitato tanto, troppo, clamore, la vicenda del piccolo Enea lasciato nella Culla per la Vita della Mangiagalli di Milano. Il gesto di una donna che ha scelto per il bene di suo figlio e che, se dal punto di vista personale chiede giusto silenzio, dal punto di vista politico e sociale rinnova l’esigenza di una legge per promuovere le culle per la vita e il parto in anonimato

Sono passate poco più di 24 ore da quando il piccolo Enea è stato lasciato dalla mamma che lo ha messo al mondo nella “Culla per la vita” della clinica Mangiagalli di Milano. 24 ore in cui è stato detto davvero di tutto, il più delle volte, purtroppo, a sproposito. È chiaro che un evento di questo tipo tocca tutti nel profondo e ci chiama in causa come singoli essere umani e come società, ma prima di ogni altra considerazione bisognerebbe scindere in modo chiaro i due aspetti che questa vicenda mette in luce.

Il “dono” della mamma al piccolo Enea nella Culla per la Vita

Da un parte c’è la vicenda personale di Enea, della mamma che lo ha partorito e, magari, anche di un papà di cui nessuno sa nulla, se non, come è giusto che sia, nell’intimità di una coppia (?), una famiglia (?), un’amicizia (?)… che ha preso una decisione sicuramente difficilissima ma anche piena di grande altruismo e generosità: decidere di mettere al mondo un bambino che si ritiene di non essere in grado di mantenere e affidarlo a un luogo e delle persone che se ne prenderanno cura da subito, aprendogli la strada per una vita “normale”, come quella di ogni bambino che nasce. Questa parte della vicenda finisce qui. Deve finire qui! Perché è una scelta intima di una mamma e di chi le è più vicino. Può, certo, far sorgere la giusta domanda se sia stato fatto tutto il possibile per aiutare questa donna e riflettere nel migliore dei modi su quale potesse essere la scelta da compiere, ma sgombrando subito il campo che sia una “sconfitta” della società (a prescindere) il fatto che una mamma scelga di dare alla luce un figlio e affidarlo a mani sicure, piuttosto che cercare in tutti i modi di aiutarla per “convincerla” a tenere il figlio con sé.

Culla per la Vita e parto in anonimato

E, qui, si arriva al secondo aspetto che questa vicenda mette in luce e che merita, questo sì, riflessioni a tutti i livelli. Perché la vera domanda da farsi è: se questa mamma non avesse potuto raggiungere la Culla per la Vita della Mangiagalli, dove avrebbe abbandonato suo figlio? In Italia, infatti, le Culla per la Vita sono solo una sessantina, e distribuite in maniera non omogenea sul territorio: nelle ragioni di Calabria, Molise, Sardegna, Trentino e Friuli Venezia Giulia, per esempio, non ce n’è neppure una, e anche in quelle regioni dove ce ne sono di più, come la Lombardia, in cui si trova anche quella aperta da Ai.Bi. – Amici dei Bambini a San Giuliano Milanese, non tutto il territorio è coperto. Per questo, Ai.Bi., da tempo, sta lavorando a una proposta di legge per rendere obbligatoria l’istituzione di un Culla per la Vita in ogni comune: bastano circa 6 mila euro per approntarne una e, quindi, i costi non sarebbero un grosso problema.
Ma c’è anche un’altra domanda da farsi: perché questa mamma non ha pensato di ricorrere al parto in anonimato per far nascere suo figlio? Se fosse una questione di (comprensibile e umano, per quanto sia proprio uno degli aspetti da combattere) imbarazzo, certo tutto il clamore suscitato da questa storia non aiuterà le prossime mamme a valutare questa ipotesi. Se, invece, fosse perché questa pratica non è conosciuta da tutti, il problema sarebbe forse ancora più grave, ma nello stesso tempo più facilmente risolvibile con una campagna di comunicazione efficace e condivisa, se solo ce ne fosse la volontà.