Smart working: è già un addio

Secondo le ultime stime, poco più di un italiano su 10 usufruisce dello smart working. Per la maggioranza dei manager americani, entro fine anno è necessario tutti tornino in presenza

Lo smart working sembrava essere una delle poche possibili “conquiste” che il Covid avrebbe lasciato in eredità. Stando ai numeri, così non è! Perché all’indomani della sostanziale eliminazione di tutte le restrizioni, le ultime rilevazioni di Inapp certificano che se potenzialmente i lavoratori che potrebbero lavorare da remoto sono il 40%, a farlo effettivamente è solo il 14,9%.
Certo, guardando i dati non dalla parte delle ipotesi, ma facendo un riscontro con il passato, nel giro di pochi anni la crescita è stata decisamente significativa, arrivando, appunto, al 15% dal 4,8% di prima della pandemia, ma gli scenari che sembravano essersi aperti promettevano ben altri numeri.

Lo smart working non cresce più

La lettura dei dati riguardanti lo smart working non è per nulla semplice. Da un lato c’è la direzione presa da molte aziende, a partire dagli USA, che hanno denunciato la necessità di un ritorno al lavoro in presenza: è successo all’ultimo Forum Ambrosetti di Villa d’Este, a Cernobbio, quando  – come riporta il Corriere della Sera – “Uno dei più grandi investitori americani e mondiali ha lanciato un pressante appello”, sostenendo che lo “smart working ci isola a contatto con i nostri replicanti, di conseguenza ci rende più faziosi, più tribali, riduce la nostra esposizione a idee diverse, gruppi etnici e componenti sessuali diverse”.
Dall’altro ci sono le analisi di un diversi economisti, come quella pubblicata dal National Bureau of Economic Research e pubblicata da Avvenire, che, analizzando la realtà del lavoro a distanza in ventisette nazioni ha sottolineato come lavorare da casa permetta di risparmiare in media 72 minuti di tempo che ogni giorno si “perdono” nel tragitto casa – lavoro. Ma la cosa più interessante è che di questi minuti (che per quanto riguarda l’Italia sono attestati a 61), la maggior parte verrebbero dedicati dai lavoratori al lavoro stesso.

Smart working: sempre di più una “linea del fronte” tra generazioni

È evidente, insomma, che da qualche parte un cortocircuito ci sia, perché se i numeri certificano che lo smart working permette di avere maggior tempo a disposizione per il lavoro stesso, ma i manager di sempre più aziende auspicano un ritorno alla presenza (tanto che non si sta verificando l’aumento della percentuale di lavoratori agili, che è il dato da cui siamo partiti), qualcosa non torna, per le meno nelle dinamiche con cui siamo soliti misurare questi fattori.
Sul piatto della bilancia tra costi e benefici, allora, vale la pena introdurre elementi meno quantificabili come quelli delle relazioni sociali con i colleghi, per esempio, o, più in generale, il tema della produttività, che secondo diverse analisi è il vero problema della mancata crescita economica dell’Italia negli ultimi decenni. Ma questo aprirebbe un altro fronte di discussione nel quale lo smart working è solo uno, e non tra i principali, degli argomenti.
Piuttosto, quello che sembra di poter constatare è che lo smart working sta diventando una “linea del fronte” generazionale: tutti i responsabili delle risorse umane e chi si occupa di selezione, per esempio, hanno imparato da tempo come il fatto di poter fare smart working sia sempre di più una delle richieste che vengono fatte da chi cerca un lavoroù; mentre, come abbiamo visto, sempre più manager, imprenditori e responsabili, sono convinti che lo smart working andrà (e debba andare) calando. Sempre secondo il già citato articolo del Corrirere della Sera, il 60% dei manager americani pensa sia necessario un ritorno di tutti i lavoratori in presenza entro la fine dell’anno. Ma se, di contro,il 64% di chi finora ha usufruito del lavoro agile ha affermato che, in caso di un ritorno completamente in presenza, cercherò un altro lavoro, il problema esiste e non è più rimandabile.