Uteri in affitto all’estero: in Italia il reato c’è. E resta

utero in affitto200Riportiamo di seguito un articolo apparso sul numero di “Avvenire” giovedì 26 giugno a firma di Marcello Palmieri. Le recenti sentenze di assoluzione stanno diffondendo l’idea che la maternità surrogata sia ormai legale. Ma anche la Consulta ha ribadito il divieto: e allora perché non viene applicata la legge?

Basterebbe una semplice richiesta del ministro della Giustizia, per permettere alla giustizia di fare il suo corso. Ancora una volta si parla di utero in affitto: una pratica in Italia vietata dalla legge, e tale ritenuta anche dalla recente pronuncia della Consulta che ha invece aperto alla fecondazione eterologa (la surrogazione di maternità, ha precisato in quell’occasione la Corte Costituzionale, rimane “espressamente vietata dall’art. 12, comma 6, della legge n.40 del 2004, con prescrizione e non censurata e che in nessun modo ed in nessun punto è incisa dalla presente pronuncia, conservando quindi perdurante validità ed efficacia”). Belle parole, che però rischiano di rimanere sulla carta. Come vi stanno rimanendo quelle della legge promulgata 10 anni fa, dopo che il Tribunale di Milano e anche altri in Italia hanno assolto chi a questa pratica aveva fatto ricorso all’estero, nulla opponendo anche al fatto che il bambino “assemblato” oltreconfine fosse stato registrato all’anagrafe del Comune di residenza a nome dei “genitori contraenti” (sì, perché quello di maternità surrogata, giuridicamente, risulta un contratto di prestazione professionale).

Eppure, leggendole bene, sono le stesse sentenze assolutorie – per esempio quella pronunciata dal Tribunale di Milano il 15 ottobre 2013 – a ritenere concretamente commesso, nella “filiera” dell’utero affittato all’estero, almeno un reato: quello di “falsa attestazione o dichiarazione a un pubblico ufficiale sulla identità o su qualità proprie e altrui”, punito dall’articolo 495 del Codice penale con l’aggravante del suo secondo comma (l’aver agito nell’ambito di atti dello stato civile). Solitamente i genitori commettono questa violazione davanti all’autorità consolare del Paese in cui hanno “ottenuto” il figlio, quando dichiarano di aver generato il bebè. Il tutto, nel tentativo di evitare che i funzionari si rifiutino di inviare in Italia l’atto di nascita. Perché dunque i giudici, pur avendo accertato il reato, non hanno applicato la sanzione prevista (reclusione da 1 a 6 anni)? A fermarli è stato l’articolo 9 del Codice penale, titolato “delitto comune del cittadino all’estero”. In questi casi, perché sia irrogata la pena, bisogna che il reato preveda la reclusione minima di 3 anni. Diversamente, per procedere serve la richiesta del ministro della Giustizia. Se non arriva, resta la classica situazione all’italiana: il reato c’è, ma è come se non ci fosse. Perché ai colpevoli non deriva nessuna conseguenza. Così è accaduto finora: la pena minima per questo delitto è di un anno, e il ministro sinora ha taciuto.

Intendiamoci: qui non si tratta tanto di reprimere, quanto piuttosto di disincentivare un comportamento che il legislatore ha definito e la Consulta ha ribadito come reato: la maternità surrogata. Da un lato, procedendo penalmente in questo modo, il neonato non rischierebbe nessun pregiudizio. Dall’altro, prima di espatriare alla ricerca del bebè a tutti i costi, le coppie rifletterebbero più attentamente sulle conseguenze del loro gesto. Che viola comunque diverse norme del nostro ordinamento.