Utero in affitto. In un processo a Pesaro la legge 40 definita poco chiara. Ennesimo cavallo di Troia per scardinarla?

Il testo non indicherebbe chiaramente i genitori committenti come penalmente responsabili

La legislazione italiana in materia di maternità surrogata? Non è sufficientemente “chiara”. A sostenerlo sono un avvocato e la Procura di Pesaro, coinvolti a diverso titolo nel processo contro una coppia di ultracinquantenni che hanno ottenuto due figli ricorrendo a GPA in Ucraina.

Nel 2016 i due erano rientrati in Italia dal Paese dell’est, facendo trascrivere nel registro del comune di residenza l’atto di nascita di due gemellini, nati appunto da una donna ucraina. La Procura pesarese, a quel punto, aveva ipotizzato due reati: quella di falso nell’atto di nascita dei due bambini (accusa poi caduta e archiviata) e quello di violazione della legge 40, che, al comma 6 dell’articolo 12, specifica testualmente che chiunque realizzi la commercializzazione di gameti o la surrogazione di maternità deve essere punito con reclusione da tre mesi a due anni e una multa da 600mila euro a un milione.

Ma, durante il processo, oltre alla difesa della coppia è stata la stessa Procura a notare come la legge sia indeterminata nella sua formulazione e dunque eludibile. Un’indeterminatezza che riguarderebbe soprattutto quel “chiunque, che non indicherebbe chiaramente la figura dei genitori committenti.

L’avvocato della difesa ha invece sostenuto che, a provare le lacune della legge, sarebbe la già avviata “opera di revisione da parte della Corte costituzionale”.

E così, pur esistendo una legge che fa esplicito divieto di questa pratica, confermata peraltro dalla popolazione italiana con un referendum del 2005, l’episodio della coppia di Pesaro rischia di diventare l’ennesimo “cavallo di Troia” con cui cercare di scardinarla. In nome non dei tecnicismi giuridici, che sono un mero paravento, ma, chiaramente, dell’ideologia.