Conferenza Nazionale Infanzia: le Comunità Educative vanno chiuse entro 4 anni

ragazzo marciapiede 200Nella tana del lupo. Durante la Conferenza nazionale dell’infanzia e adolescenza, svoltasi a Bari il 27 e 28 febbraio, Amici dei Bambini ha chiesto la chiusura delle Comunità educative perché sono contro legge. L’intervento di Antonio Gorgoglione, coordinatore Ai.Bi. della Puglia, ha fatto rumoreggiare l’assemblea composta prevalentemente da operatori del settore.

Tre i pilastri dell’ intervento. Il primo può essere sintetizzato dallo slogan: solo una famiglia può sostituire una famiglia. E cosa c’è di analogo a una famiglia, se non un’altra famiglia? E’ ormai maturo il tempo di programmare la chiusura delle comunità educative entro il 2017. Una proposta che semplicemente darebbe attuazione alla legislazione esistente. La legge 149, all’articolo 2 comma  4, recita testualmente: “Il ricovero in istituto deve essere superato entro il 31 dicembre 2006 mediante affidamento ad una famiglia e, ove ciò non sia possibile, mediante inserimento in comunità di tipo familiare caratterizzate da organizzazione e da rapporti interpersonali analoghi a quelli di una famiglia”. E cosa c’è di analogo a una famiglia, se non un’altra famiglia?

La battaglia per la chiusura dei vecchi istituti, lanciata da Don Oreste Benzi e fatta propria da Amici dei Bambini, si è realizzata. Ma a distanza di tredici anni dalla legge, manca la corretta riorganizzazione delle modalità di accoglienza dei minori in affidamento. Educatori e operatori professionali quali sono i dipendenti delle comunità educative non possono in alcun modo avere il ruolo di due genitori.

Il punto è che su circa 30mila minori fuori famiglia, più della metà vivono in comunità educative. Quindi servirebbero 10mila  famiglie disponibili ad accogliere bambini e ragazzi che si trovano in difficoltà.

Un traguardo apparentemente irraggiungibile, visto che negli ultimi anni si è assistito alla perdita di 700 famiglie affidatarie. Ma le ragioni di questo forfait sono dovute quasi sempre alla solitudine con la quale le famiglie affidatarie fanno quotidianamente i conti. I servizi sociali hanno infatti sempre meno risorse economiche e umane da investire per la tutela dei minori. E qui si incunea il secondo punto, ovvero l’opportunità di coinvolgere il privato sociale nella gestione dell’affido, per ora esclusivo appannaggio del pubblico.

Il terzo punto affrontato da Gorgoglione è la necessità di restituire all’affido la sua principale caratteristica: ovvero garantire a un minore in difficoltà un progetto di accoglienza temporanea. Invece  quasi sempre la temporaneità viene disattesa. La prassi ha trasformato quella che dovrebbe essere l’eccezione, un affido superiore ai 24 mesi (eventualmente rinnovabili),  in consuetudine.  A danno soprattutto dei bambini, che restano per anni  in un limbo affettivo e burocratico.

Intervistato da Aibinews, Gorgoglione ha affermato:  «Le obiezioni che mi sono state rivolte dietro le quinte è che una famiglia non è preparata per affrontare situazioni di grave disagio, ma la nostra proposta è proprio quella affidare le cose della famiglia alla famiglia, che però non deve essere lasciata sola, come troppe volte accade adesso, ma dev’essere supportata da figure professionali specializzate».