I ragazzi “bruciati” d’Ucraina e le mamme lontane

(L’viv ) Tra zie, cognate e nipoti se ne sono andate in quindici. Tutta la colonna femminile di una famiglia. Quella dei Busko, che in ucraino vuol dire cicogna. A casa dei Kinashchuk, i vicini, son ri­maste le piccole donne, cugine: le sorelle Maria e Cristina, di 13 e 15 anni; e un’altra coppia di sorelle, Anastasia e Sofia, di 12 e 13 anni, che allevano i fratellini Pavlov e Za­caria. I genitori vanno e vengono per l’Italia. I bambini crescono con al fianco una vecchietta del posto, che fa da mangiare e fa un po’ di tutto: insomma, si potrebbe di­re, fa da badante. La vecchietta è pagata cin­que euro al giorno dalla nonna dei bambi­ni, Maria Kinashchuk, di 60 anni, che a Ri­mini assiste Flora, di 18 anni più grande, per novecento euro al mese. Questa Flora, anziana malata e bisognosa d’una persona al fianco che la pulisca, sorvegli e ascolti, irrompe al telefono con domande da inna­morata gelosa e delusa: «Ma quando tor­ni?». Maria tornerà dopo l’estate. «Devo fer­marmi qualche mese», dice con venature di romagnolo nell’accento, «per vedere co­me vanno i ragazzi, che crescono soli». Non sono i soli: in Italia lavorano oltre cen­tomila donne ucraine che qui hanno lascia­to tra i due e i trecentomila figli.

Siamo a Pristan, villaggio di trecento fa­miglie e di 103 bambini, e di oche, anatre e cavalli veri padroni del traffico sulle strade sterrate. La regione è quella di L’viv, nel­l’Ovest dell’Ucraina, la parte più anti-russa della nazione. Prima del regime dei sovieti­ci ci furono i tedeschi, che rubarono di tut­to, anche la terra, una terra ricchissima di miniere di carbone dove si scava fino a sei­cento metri con un ascensore che scende (precipita?) a dieci metri al secondo facen­do fischiare, anzi urlare, le orecchie. Nonna Maria se ne andò da questi posti undici anni fa. Era maestra, rimase vedova. Prima di partire imparò, da una concittadi­na emigrata e rimpatriata, «cinquecento pa­role in italiano». Per lo più erano aggettivi: onesta, lavoratrice, generosa, e via appren­dendo. Con quel vocabolario in mano, girò a cercar lavoro. Lo trovò al nono giorno. Maria, dolcissima, presenta i nipoti uno a uno. La maggiore, Cristina, tiene in mano un cellulare, lo fissa, aspetta che suoni; lo mette in tasca, lo estrae e controlla casomai abbia perso una telefonata. Dopo dieci mi­nuti, la chiama la mamma. Dice di aver ap­pena spedito uno scatolone con pasta, ton­no e salmone che in Ucraina sono di qualità scadente.

Per i prodotti migliori, si deve ricorrere al contrabbando. Più che dei traffici sporchi, a L’viv, colta e ospitale città di quaranta chiese e un milione di abitanti, a 60 chilometri da Pristan, sono tutta­via alle prese con altri proble­mi, come confermano la poli­zia e il giornalista Omar Uza­rashvili. Esperto di criminali­tà per il quotidiano da trecen­tomila copie «Vysokyi Za­mok», Uzarashvili dice che «ogni giorno, in media, sei minorenni compiono rapine e scippi», e che nei sei «ci so­no almeno due figli di una madre emigrata. Privi di custodi e di affet­to, finiscono per strada, arruolati dalla cri­minalità ». L’ultimo l’hanno preso una setti­mana fa: aveva assaltato una gioielleria. Ci hanno messo poco, ad arrestarlo. La polizia ha avuto in eredità dal Kgb un controllo to­tale del territorio. Nulla le scappa. Infatti è molto temuta. Alla pari delle carceri, «terri­bili perché ti regalano brutte malattie».

Nella regione di L’viv ci sono due carceri minorili. In città ci sono un Internat – un orfanotrofio – e un centro di primo inter­vento che ospita per un massimo di tre me­si bambini rimasti senza genitori. Dopo il centro (qualcuno evade prima nonostante sbarre alle finestre, telecamere nelle stanze e in cortile il cane Berta, Berta come il can­none della prima guerra mondiale), si fini­sce nell’Internat. La cui direttrice Svetlana Ulianivna, un donnone, attraversa bui corri­doi bersagliati da odore di muffa, e condu­ce in una bella aula tripudio di bandiere tri­colori. «È la nostra classe di italiano. Inse­gniamo la vostra lingua. Per chi un giorno partirà. Magari dopo un’adozione». Alcuni bimbi, in particolare la biondina Olga, gi­rano intorno agli ospiti e con gli occhi pregano di portarli via. Qualcuno ave­va detto che il loro sguardo sarebbe stato identico a quello dei cani in un canile: aveva ragione. Più difficile incrociare gli occhi dei ragazzini che – è una cartolina diffusa in tutte le grandi città dell’Est Europa – si nascondono nelle fogne o, succede a L’viv, nelle cantine di fabbriche enor­mi e abbandonate, e vivono sniffando colla da sacchetti di plastica. Se avvicinati, spiega la polizia, reagiscono a sassaiole.

In Italia, due delle comunità ucraine più numerose sono in Veneto e a Milano. Tama­ra Podznyakova è la leader del gruppo di Mestre. Forte e fuori dal coro (il Governo ucraino tende a non parlare della generazio­ne perduta dei figli delle emigrate), Tamara ha voluto che la primogenita venisse in Ita­lia. Per capire. «Assisteva un anziano. Im­mobile a letto. Doveva lavarlo. Ha resistito un anno. ‘Non fa per me’ ha detto. Quanti sacrifici facciamo… Non se ne rendono con­to. Ricevono i soldi e li sperperano. Per i nostri figli e i nostri uomini, che davvero non sono granché, con quel dannato vizio della bottiglia, siamo vacche da mungere». A Milano c’è una chiesa, nel quartiere Iso­la. Di domenica, gli ucraini la «occupano» per lunghe messe cantate. Una settimana fa padre Alexandre ha battezzato Solomia, fi­glia di Iryna e Andrey. Ormai si nasce sol­tanto all’estero: l’Ucraina ha un incremento della popolazione del meno 6,4%.

Le ucrai­ne, qui chiamate badanti e là «assistent» in quanto, tengono a precisare, «il verbo bada­re si usa con gli animali», inviando le rimes­se producono il 30% del prodotto interno lordo. In patria, chi è rimasto, con una moneta debole e paghe basse (il sala­rio di un medico è di 250 euro) consi­dera le «assistent» alla stregua di pro­stitute, che inseguono all’estero la ricchezza abbandonando i bimbi. «Ma se noi viviamo per loro? Per far­li laureare?» s’infuria Tamara. Una recente legge ha disposto la chiusura delle sale da gioco, con i vi­deopoker. Erano diventate troppo affol­late, erano spuntate perfino nella lontana, dimenticata e a tratti vergine (l’acqua viene ancora pescata dai pozzi) campagna. Così ora, eliminata la concorrenza delle macchi­nette, gli spacciatori di droga si lavorano i danarosi «orfani». Villaggio per villaggio. Casa dopo casa. Senza fretta. Con noi italia­ni che continuiamo a invecchiare, hanno tutto il tempo di questo mondo.
(fonte: Il Corriere della Sera)