Siria, l’insostenibile precarietà di una vita sotto le bombe

siriaDal nostro inviato (Luigi Mariani) – Anche oggi, in occasione del nostro incontro a Reyhanli, Ahmad*, il referente siriano di Amici dei Bambini e Syrian Children Relief, porta con sé i segni della guerra. Questa volta non si tratta di ferite esteriori, coperte da cerotti o bende. Questa volta la ferita è dentro, ed è difficile nasconderla: lo vedo, lo percepisco dal suo sguardo, mentre lo osservo chino sul cellulare, seduto all’ingresso di un locale.

Non appena ci facciamo avanti, si alza e mi stringe la mano; questa volta il suo sorriso è più sbiadito del solito.

“Come va a Binnish?” gli domando, mentre mi fa strada fra i tavolini del bar.

“E’ appena stata bombardata” mi risponde lui, secco.

Gelo.

Guardo il mio interprete, un amico siriano che ha vissuto in Italia e parla la nostra lingua: “Cosa si dice, in questi casi?”, gli domando con gli occhi. Anche lui è visibilmente interdetto.

Ci sediamo, apro il taccuino e mi preparo per prendere appunti. Sono imbarazzato, mi sento a disagio; il volto scuro di Ahmad, che controlla preoccupato il cellulare, non facilita di certo le cose. Siamo qui per parlare dei nostri progetti, di come aiutare in maniera concreta ed efficace la comunità di Binnish, eppure la sensazione che ho, in questo momento, è che qualunque cosa dicessi sarebbe fuori luogo.

Si può vivere così?, mi domando. In un mondo normale, quando uno ti chiede come stai o come stanno i tuoi a casa, non ci dovrebbe essere spazio per una risposta che contenga termini come “bomba”, “morti” e “feriti”. Il massimo che ti aspetti dal tuo interlocutore – se proprio le cose non dovessero andar bene – sono espressioni come “sono stato meglio” o “abbiamo qualche problema”. Di certo, non frasi del tipo: “hanno bombardato il villaggio, sono in attesa di sapere se mia moglie e i miei figli stanno bene e sono al sicuro”.

Eppure la guerra fa anche questo: stravolge la vita, le abitudini, le relazioni, persino il lessico e il modo di comunicare. Ti scaglia dentro un vortice di circostanze così drammatiche e al di fuori di ogni controllo, che non sei nemmeno sicuro di poter rispondere “stiamo bene”, perché nel giro di un attimo tutto potrebbe cambiare per sempre. Una scheggia impazzita, un proiettile, un muro che crolla addosso a te o a uno dei tuoi cari, e quella espressione perde di significato.

E qui non si parla della proverbiale tegola che potrebbe cadere sulla testa di chiunque; quella in cui si trovano gli abitanti di Binnish (e quanti, in tutta la Siria, hanno scelto di rimanere nelle proprie case, a dispetto della guerra) è una condizione di precarietà imposta con la violenza, a cui non è possibile sottrarsi se non fuggendo, arrendendosi, alzando bandiera bianca e dandola vinta al male, all’ingiustizia, alla crudeltà umana. È una situazione che non è facile comprendere fino in fondo, per chi non la vive. Io stesso, oggi, mi sono solo avvicinato un po’ di più, ma rimango pur sempre uno spettatore esterno: raccontare non serve solo a condividere, ma anche a comprendere meglio.

Prendo coraggio e faccio ad Ahmad la prima domanda, sperando che con il passare del tempo la tensione si sciolga e che da Binnish arrivino buone notizie. In fondo, mi dico, siamo qui per lavorare con uno scopo comune: aiutarci ad aiutare – per quanto possibile – tutte quelle famiglie che, con coraggio, hanno scelto di condurre la propria, personale ribellione contro la paura quotidiana.

 

In questo momento, le famiglie siriane hanno bisogno di tutto l’aiuto possibile, da parte di tutti. Non restiamo a guardare.

 

Se vuoi dare anche tu il tuo contributo ai progetti di Ai.Bi. in Siria, per garantire ai bambini e alle famiglie siriane il diritto di sentirsi a casa, nel proprio Paese, visita il sito dedicato.

 

*nome di fantasia