Siria. “Finché mantengo il sorriso sulle labbra, vinco io”

siriaDal nostro inviato (Luigi Mariani). “Non importa se la mia vita è un disastro, a causa della guerra. Finché mantengo il sorriso sulle labbra, vinco io”.
Abed (nome di fantasia), uno dei miei amici siriani, accompagna queste parole con passione e gesti accentuati. Nel suo sguardo colgo la determinazione di chi non vuole arrendersi, nonostante le difficoltà: il conflitto in Siria gli ha portato via quasi tutto, tranne il sogno di una vita migliore.
Ci troviamo al solito “bar” per siriani nella cittadina turca di Reyhanli, un sorta di rifugio ricavato ai piedi di una collina che segna il confine con la Siria. Un ritrovo informale, dove torno ogni volta che posso per scambiare due chiacchiere con il mio amico e con il gestore, anch’egli siriano, tra un sorso di “chai” (il tè locale) e una partita a “taula” (gioco arabo simile al backgammon).

La pace che si respira qui, all’ombra del pergolato, accarezzati dalla frescura degli alberi, sembra quasi surreale, paragonata a quanto accade a una manciata di chilometri di distanza, appena oltre la frontiera. Lo considero un luogo simbolico, una sorta di ultimo
fronte della speranza, contro quell’inferno di dolore e disperazione che è diventata la Siria; il punto d’incontro fra due mondi paralleli, così vicini eppure così distanti fra loro.

Abed è un ragazzo di 27 anni, originario della provincia di Idlib. Per diversi anni ha vissuto a Damasco, dove collaborava con la SARC (Syrian Arabic Red Crescent), la Mezzaluna Rossa Siriana. È un ragazzo sensibile, che ha sempre lavorato a stretto contatto con i bambini, soprattutto in veste di educatore e formatore professionale. Ma dal giorno in cui decise di lasciare l’esercito, agli inizi della rivoluzione, la sua vita è cambiata per sempre: ha perso l’amore, il lavoro, gli amici, la casa, la patria.

“Mi avrebbero chiesto di colpire e fare del male alla mia stessa gente” mi racconta Abed, accendendosi l’ennesima sigaretta. “Non avrei mai potuto farlo, così decisi di venire meno ai miei obblighi militari”.
Inizialmente costretto a rientrare al suo paese, in una zona sotto il controllo dei ribelli, il mio amico ha trascorso mesi bui, toccando il fondo dell’esistenza, senza più alcuna fiducia nel futuro; fino a che non si è imposto di reagire, aggrappandosi a quel che gli rimaneva – la famiglia – per tentare di risalire la china e ricostruirsi una vita. Ha quindi iniziato a supportare la propria comunità, coordinando la distribuzione degli aiuti umanitari ed entrando in conflitto con gli interessi di alcuni gruppi armati locali; dopo essere stato rapito per alcune settimane a scopo intimidatorio, Abed ha capito che non avrebbe più potuto vivere in Siria e nel 2013, con un escamotage, è riuscito a fuggire in Turchia, dove tuttora vive.

Oggi lavora per un’importante ong internazionale, con un contratto a progetto. Per ovvie ragioni di cautela e sicurezza personale, non può più tornare a Damasco, né al suo paese; in più, il suo passaporto è scaduto e non c’è modo di rinnovarlo, quindi è impossibilitato a lasciare il paese, almeno per il momento.

In altre parole, Abed è bloccato in una sorta di limbo, dove deve fare ricorso a tutte le energie di cui dispone per reggere il peso della responsabilità che ora le circostanze gli impongono: il mantenimento dei suoi genitori, che sono stati costretti a raggiungerlo e di cui ora deve prendersi cura.

“Alle volte, quasi mi auguro che muoiano” mi confida, fissandomi come per mettermi alla prova e testare la mia reazione. Rimango interdetto: mi domando cosa possa spingere il mio amico a fare un’affermazione del genere, per quanto provocatoria possa essere. “Non mi fraintendere” continua, come per cavarmi
dall’imbarazzo “è ovvio che devo loro tutto, ma li vedo stanchi, malati, invecchiati. Stanno morendo lentamente, giorno dopo giorno. Con il mio stipendio pago l’affitto, le loro medicine, il cibo per tutti, compresi i miei fratelli, che non riescono a trovare lavoro. A me rimane poco o nulla”.
Capita così che l’acquisto occasionale di un paio di cuffie per ascoltare la musica o di qualche altro gadget tecnologico di ultima generazione siano le sole, uniche
soddisfazioni che Abed riesce a togliersi; più che altro, un modo per affermare di avere ancora il controllo di sé e del proprio destino.
La storia di Abed è simile a quella di tanti altri giovani costretti a fuggire dalla guerra; storie che parlano di sogni infranti, di esistenze compromesse dalla disgrazia e dalla perdita di fiducia nel futuro. Ma il mio amico, nonostante tutto, ha deciso di non arrendersi e continuare a combattere.

Ha un piccolo, grande sogno, che lo spinge ad andare avanti. Me lo rivela: “Un giorno mi trasferirò in Europa, troverò un bel lavoro e metterò su famiglia” mi dice con tono convinto: “Ancora non so come, ma sono sicuro che in un modo o nell’altro ci riuscirò. Ce la farò, Luigi: lo sento”.

 

In questo momento, la popolazione siriana ha bisogno di tutto il supporto possibile, da parte di tutti. Non restiamo a guardare.

Se vuoi dare anche tu il tuo contributo ai progetti di Ai.Bi. in Siria, per garantire ai bambini e alle famiglie siriane il diritto di sentirsi a casa, nel proprio Paese, visita il sito dedicato.