Andiamo a casa a ucciderci

Tre amiche e una decisione apparentemente assurda: uccidersi quella sera stessa. Due non lo faranno, una andrà fino in fondo. Non un semplice “fatto di cronaca”, ma una vicenda drammatica che suscita mille interrogativi in qualsiasi genitore

Incredulità, rabbia, il vile pensiero del “ai miei figli non poteva capitare”, lo smarrimento di chi prova a chiedersi perché… A volte ci sono vicende che suscitano tutto questo, anche se, quasi sempre, le domande durano giusto il tempo di leggere un paio di articoli di giornale. Poi ci si sforza di scrollare le spalle, cambiare pagina con un click e quello che rimane, in un angolo della mente, è solo un altro “fatto di cronaca”.

Perché non accada più di suicidarsi a dodici anni

Ma questa volta no! Perché la storia di Maria, la ragazzina di dodici anni suicidatasi nella sua cameretta di Borgofranco, circa 100 km da Torino, non può essere catalogata così in fretta nell’archivio delle notizie da rassegna stampa. Forse si preferirebbe farlo, e si preferirebbe astenersi dal racconto, un po’ per paura di avere qualcosa di troppo grande davanti, un po’ per pudore, un po’ anche per comodità.
Invece, per quanto ci si possa percepire inadeguati a spiegare l’inspiegabile, è un racconto che va fatto. Perché si tratta di una storia reale, nella sua assurdità e nell’immenso dolore, e perché forse, parlandone, si può sperare che episodi simili non accadano più. O se non altro, accadano un po’ di meno.

I fatti, per come li riportano i giornali, sono ancor più scioccanti per la loro apparente normalità: tre amiche che vanno alle scuole medie e si conoscono da tempo, Maria, una di loro, che al mattino va a Messa con la famiglia e, nel pomeriggio, vista la giornata di sole, tutte e tre che decidono di fare una passeggiata nei boschi dei dintorni. Detta così pare anche più sano in confronto ai racconti di tanti genitori preoccupati per i figli chiusi in camera a chattare, connessi al mondo sempre attraverso uno smartphone.
Maria e le sue compagne, invece, sono all’aria aperta, sotto un cielo freddo ma azzurro. Certo, anche lì, pare, il telefonino è protagonista, per qualche selfie, qualche messaggio, un po’ di musica, magari… Ma è nella testa di queste preadolescenti che evidentemente scatta qualcosa. E sicuramente non scatta in quel pomeriggio di sole come se venisse premuto un interruttore, ma spunta fuori come un malefico germoglio dalla terra di pensieri, racconti senza filtri e stimoli di ogni genere accumulati nel tempo. L’idea, folle, è quella di suicidarsi. Forse un gioco, una sfida buttata lì per vedere l’effetto che fa… Sta di fatto che i pensieri prendono forma, i progetti si fanno più concreti e al momento dei saluti la decisione è quella di farlo davvero, tutte e tre insieme quella sera stessa.

Una delle amiche, racconterà, arrivata a casa si mette a piangere, segno che quei discorsi non sono frutto di una conversazione come le altre, di una fantasia. Eppure, probabilmente, nemmeno lei si sarebbe aspettata che le amiche sarebbero andate fino in fondo. Invece, questo è ciò che fanno. Una, raccontano le cronache, si tirerà indietro all’ultimo momento, ancora non si sa quanto a conoscenza di quello che, intanto, Maria stava realmente mettendo in atto. L’analisi delle tantissime chat sequestrate dai carabinieri forse chiarirà meglio gli ultimi istanti di questa terribile vicenda che, al momento, lascia solo uno sgomento incolmabile.

Domande a cui non si sa rispondere

Perché Maria verrà ritrovata per terra, nella sua camera, con una cintura stretta al collo da una parte e legata a una mensola dall’altra. Davanti a lei, si racconta, delle croci rovesciate, chissà se per un rito folle quanto il gesto o se, magari, per un’ultima preghiera scomposta da quello che è successo subito dopo.

Il fatto incontrovertibile che rimane è il corpo di Maria ormai senza vita, mentre al di fuori di quella cameretta il mondo per un po’ scorre ancora come prima. Le amiche che forse si chiedono perché Maria non risponda ai messaggi, soffocando l’angoscia che sia davvero successo qualcosa di irreversibile. La famiglia e la comunità ancora ignare di tutto. Perché la realtà non è davvero tale finché non ci sbatti contro, aprendo la porta di quella cameretta ma anche, in maniera infinitamente minore, leggendo di questa storia su un giornale. È da quel momento che le domande iniziano ad affastellarsi nella mente dei genitori, disperati, degli amici, della comunità, del parroco dell’oratorio frequentato da Maria… E, certo con minore intensità emotiva, ma con la stessa urgenza, sono le stesse domande che si fa qualsiasi genitore. O almeno così dovrebbe essere.

Perché, al di là del rassicurante (e falso) pensiero che ciò non è accaduto vicino a noi, non esistono certezze. Credere di sapere quello che c’è veramente nella testa dei figli è un’illusione per qualsiasi genitore. Certo, l’educazione, l’esempio, la scuola, l’ambiente, le amicizie… tutto contribuisce a indirizzare un bambino in una certa direzione, ma, in fondo, è sole come mettere una freccia all’incrocio di mille strade.
È un’illusione quella di poter prendere per mano i figli e accompagnarli in ognuno di questi incroci, non si può. E, tra l’altro, non c’è nessuno che ci dica che anche accompagnando per mano non si possa sbagliare strada.
Probabilmente l’unica arma è quella di vigilare sempre e affidarsi, per chi crede: ascoltare, provare a capire, imparare a fidarsi, chiedere aiuto…

Con ciò non si vuole assolutamente dire che questo non sia stato fatto dalle persone vicine a Maria; non lo sappiamo e, cosa più drammatica, non lo sapranno mai nemmeno loro: chiedersi se si poteva fare qualcosa “di più” o “di meglio” è una delle costanti della vita dei genitori. Tutti, nessuno escluso. Ed è tutto quello che si può dire, perché, poi, entrare nella sfera personale di ciascuna famiglia, di ciascuna mamma e ciascun papà, non si può fare.

Nel nostro piccolo, si può raccontare. Questo sì. Non per curiosità morbosa verso una vicenda drammatica, ma per provare a dire che, forse, il socratico “sapere di non sapere” è un principio da non dimenticare: non sappiamo realmente cosa passa nella testa dei nostri figli, non conosciamo tutti i pericoli che ci sono “là fuori”, non abbiamo certezze sulle strade che imboccheranno a ogni incrocio. Serve essere consapevoli di non sapere tutto questo. E riconoscere che scrivere il meglio possibile quella freccia ideale che speriamo, e crediamo, nella nostra impotenza, possa servire come traccia da seguire, è tutto ciò che possiamo fare.